Raul Montanari




Il 68 di chi non c’era (ancora)



Dalle note di copertina

Una squadra di scrittori italiani per raccontare il '68 di chi non c'era, eludere la facile scorciatoia delle memorie dei reduci: undici voci che nel '68, per ragioni d'età, non parlavano ancora o balbettavano appena - voci di narratori fra i più originali e affascinanti degli anni '90 - s'inventano una propria idea dell'Anno Fatale, raccontano ciascuna una storia, un flash, un'immagine del mondo che cambia. Ne viene fuori il '68 personale, ironicamente autobiografico, di Nove, Campo, Lucarelli, Pinardi, Janeczeck. Quello spaventoso, nascosto e invendicato di Corrias. Quello sapientemente tenuto sullo sfondo da Doninelli e Voltolini. E ancora, il '68 fantastico e remixato di Scarpa, quello rabbioso e pirotecnico di Pinketts, per concludere con il racconto in forma di poesia di Caliceti, volo lirico multicolore di un'indignazione civile che nel '68 non avrebbe stonato.





Giudizi critici

“Un’astuta operazione editoriale” (David Fiesoli, «Il Tirreno»).

“Non è solo il dato anagrafico a unire questa squadra di scrittori chiamati a raccontare, inventare, il loro Sessantotto. La capacità di misurarsi con l’ombra lunga di un periodo che non è facile né deridere né liquidare li accomuna in questa piccola impresa polifonica. Suggestioni, emozioni, sentimenti, tensioni hanno dato corpo alla bella idea di Montanari” (Stefania Scateni, «L’Unità»).

“Occorrerà segnalare, tra le maggiori debolezze dell’inutile raccolta, che assume, nel suo complesso, la fisionomia di un esercizio retorico di gruppo (grande assente: lo stesso ’68)...” (Giovanni Pacchiano, «Il Corriere della Sera»).

“Liquidare un libro con due aggettivi è una forma di barbarie cattiva e insensata” (Luca Doninelli, «L’Avvenire»).

“L’idea è assai carina... E’ un buon esercizio leggere tutte insieme queste variazioni su un tema dato e valutare le diverse soluzioni” (Francesco Durante, «D»).






Visto da me

A monte del libro ci sono cinque serate al teatro Out Off di Milano, basate su questo concetto: a ogni appuntamento, due scrittori troppo giovani per aver fatto il ’68 affrontano un pubblico composto quasi interamente da ex sessantottini. Ripensandoci ora mi stupisco che le intemperanze del pubblico non siano mai sfociate in aggressioni fisiche, tanto evidente era lo stacco generazionale, la differenza di linguaggio, di sguardo sul mondo fra chi stava sul palco con me e chi ascoltava e interloquiva. Indimenticabile la prima serata con Tiziano Scarpa e Tommaso Labranca (che poi non volle partecipare all’antologia), un’elettricità quasi insostenibile, il tentativo di trovare il tono giusto e momenti di smarrimento autentico da parte di tutti, io per primo. Però è stato giusto farlo, anche perché non ci aveva pensato nessuno.
Il libro fu aspramente criticato; anzi, divise la critica, nel senso che ci fu un dibattito piuttosto aspro che forse passò un pochino anche sopra il libro stesso. Non andò per niente bene, comunque; ma c’è da dire che i nomi presenti nell’antologia, se riproposti adesso che sono ormai ricoperti di gloria e forieri di vendite, farebbero furore.






La prima pagina


19 gennaio 1998 (il mio compleanno).

«Però. Quanta gente» mi sussurra Tiziano Scarpa nell'orecchio; mi volto a sinistra verso Tommaso Labranca, che non può averlo sentito eppure fa una smorfia battagliera e leggermente preoccupata, il suo strano volto da ragazzino in cui gli anni si sono raccolti tutti negli occhi e nello sguardo, e solo in questo momento - è incredibile, ma succede solo in questo istante, noi tre seduti su una specie di panca nera in mezzo a un mare di biglie, migliaia e migliaia e milioni e bilioni di biglie come quelle con cui giocavamo da bambini, e davanti a noi una platea di circa duecento persone che qui dentro sembrano duemila o duecentomila - solo adesso mi rendo conto di quello che ho fatto. Eccolo, il popolo del '68 o una sua rispettabile rappresentanza, rispettabile in tutti i sensi, di fronte a noi e pure sopra di noi (in questo teatro è la platea a essere sopraelevata rispetto al palco, e non viceversa). Ci sono anche ragazzi giovani, naturalmente, e io, che detesto i giovani perché alla loro età non mi sono divertito abbastanza e quindi li invidio, ora li cerco con gli occhi, speranzoso, ma le chiome ingrigite non si contano, occhiaie che incorniciano sguardi liquidi, curiosi e qua e là apertamente sospettosi, parecchie barbe modello grizzly, giacconi e cappotti e maglioni con poche camicie - la stagione, d'altronde - volti di donna forse più giovani (più giovanili?) di quelli maschili.
«Bene» dico io a Tiziano.
«Bene cosa?».
Alzo le spalle. Mi sento responsabile per loro due. Avessimo almeno un microfono...