Raul Montanari


La vita finora



Dalle note di copertina

È l’autunno del 2016. Marco Laurenti, trentacinquenne professore delle medie con un passato di sofferenze famigliari e un presente di precariato sconfortante, parte da Milano per un incarico in un piccolo paese, in cima a una valle isolata dove la natura è prepotente e gli uomini ancora di più.
Marco sospetta di essere un cattivo insegnante e un’anima piena di ombre. Ma quando arriva il momento sa battersi come un eroe contro il Male nella sua incarnazione più spaventosa: un allievo, figlio dei nostri tempi devastati dall’idiozia tecnologica, che manipola compagni e adulti, plagia due ragazzine fino a ridurle a schiave sessuali, bullizza e cyberbullizza, usa i social per realizzare una supremazia fredda, terribile, disumana. Di fronte a lui perfino il Male tradizionale, che nella storia ha il volto di un ex criminale di guerra, sembra un retaggio del passato, più doloroso che minaccioso.
Questo drammatico scontro fra generazioni, combattuto sull’orlo di una frattura che percorre tutta la realtà in cui viviamo oggi, non potrà non contare le sue vittime e molti nodi rimarranno irrisolti. Per ricordarci che, in battaglie come quella raccontata in queste pagine, perfino la vittoria non sempre lascia in bocca il sapore rassicurante dell’happy end.

«Non farti problemi perché sono giovani, Marco. Se uno è capace di distinguere fra il bene e il male e sceglie il male, l’età non conta niente. Devi guardare solo le azioni. Può avere sei anni o sessanta, è lo stesso.»







Giudizi critici

“Si conferma una delle rare voci letterarie capaci di leggere la realtà nel suo Dna profondo, nelle sue tare e sanie, nelle sue energie irrisolte e non mediate, e tradurre tutto ciò in narrazione, in flusso, in intreccio. Senza sbavature. Senza sconti.” (Lorenzo Morandotti, cranietopi.wordpress.com).


“Un altro esempio notevole di quell’edificio consolidato chiamato romanzo, che nella sua penna è ancora vivo, vegeto, sorprendente. Aprendo le stanze del presente, l’autore ci coinvolge in una sinfonia il cui respiro spalanca finestre su paesaggi narrativi dove il nostro immaginario si espande.” (Davide Sapienza, “Corriere della Sera”).


“Montanari scrive chiaro e affabula sull’oggi, accumula e lega accadimenti piccoli e grandi, opachi e chiari. La psicologia viene dopo, la morale conta di più. L’insegnante è lui, e sa coinvolgere e inquietare il lettore legandolo alla sua trama, una storia attuale che vede, nonostante tutto, una (precaria) affermazione del bene. (Goffredo Fofi, “Internazionale”).


“Se un marziano capitasse da queste parti e mi chiedesse un romanzo per conoscere la realtà dei giorni nostri, gli regalerei La vita finora di Raul Montanari.” (Alessandro Garavaldi, www.milanonera.com).


“In questo romanzo non ci sono omicidi, detection, misteri da scoprire all’ultima pagina, basati su improbabili e deludenti architetture di trama. Eppure, la tensione narrativa è micidiale. L’autore riesce a dosare, con una magica perfezione, la realtà di cui è intrisa la vita dei suoi personaggi con la finzione delle situazioni in cui sono calati e dalle quali scaturisce una storia perfetta, finanche negli aspetti che, volutamente, all’ultima pagina rimarranno irrisolti.” (Romano De Marco, libroguerriero.wordpress.com).


“Sempre sostanzialmente fedele a certi temi portanti, nuclei imprescindibili della sua produzione, come la formidabile e assidua attenzione/sensibilità verso l’adolescenza, le difficoltà a risolverla, il rapporto con la cosiddetta maturità. Ma insieme capace, Montanari, di rinnovare il congegno tematico del plot, tenendo le antenne tese, lasciandosi permeare dalla vita, dall’attualità.” (Vincenzo Guercio, “L’Eco di Bergamo”)

“Forte, diretta, a volte addirittura violenta, profonda e certamente didattica. Questa è la scrittura di Raul Montanari, uomo e intellettuale incapace di mediazioni utilitaristiche. Mette il dito nella piaga e non ha paura di sporcarsi le mani.” (Paolo Gualandris, “La Provincia”).


“Vero, doloroso ma non disperato; e indispensabile perché mette tutto, proprio tutto, in discussione.” (Paola Maraone, “Gioia”).


“Quella di Montanari è una voce unica. Non aspira a un genere, ma a un paradigma. Il suo è un grido estremo, una denuncia potente dell’oscurantismo.” (Paolo Bianchi, “Libero”).


“L’incipit è degno di Arancia meccanica.” (Irene Soave, “Corriere della sera - Sette”).


“Montanari è molto bravo a tenere il lettore sulla corda e ad aggiungere via via sempre nuovi elementi di suspense. Quello che rende il suo romanzo interessante sono però soprattutto le ambiguità, le sfumature. La dialettica bene-male è più sofisticata di quanto non possa sembrare a prima vista. Ogni personaggio ha delle zone d’ombra.” (Marco Pontoni, “La voce di New York”.)


“Un romanzo complesso e non privo di asprezze (le descrizioni erotiche sono esplicite, come sempre in Montanari), ma che proprio per questo prova a mettere ordine, capitolo dopo capitolo, nelle fatiche del nostro presente.” (Alessandro Zaccuri, “L’avvenire”)


“Montanari, con la solita straordinaria abilità stilistica, tesse una trama ampia e profonda che fa presa nel passato di individui molto diversi per età, esperienze, mali inferti e subiti. Non solo adolescenti, dunque, ma anche adulti (almeno anagraficamente), accomunati da un’ondata carsica di risentimento, odio e paura.” (Katia Trinca, “Il Corriere di Como”.)


“Il punto di forza di Montanari, come al solito, è la scrittura chiara, ineccepibile. I suoi romanzi sembrano opere di un artigiano attento, di un intagliatore… Infine, Montanari è un moralista. Lo dico come complimento. Ha un’idea, un’etica del mondo. Si pone di fronte al male, in questo caso incarnato dall’adolescenza dei no- stri giorni (social e cyberbullista), come un giudice, e lo racconta. Spaventandosi e spaventandoci.” (Gianni Biondillo, “Cooperazione”.)


“Montanari, le cui abilità di scrittore midcult ormai ben conosciamo, ha lavorato con successo sul congegno narrativo. Tutto è calibrato come una bomba a orologeria, con i colori e i toni che si incupiscono mano a mano che ci si avvicina alla scena risolutiva: lì la vicenda della Vita finora si fa allegoria, i nomi comuni si ritro- vano all’improvviso la maiuscola delle grandi occasioni e scendono in campo i valori, la storia, il coraggio.” (Matteo Fontanone, “L’indice dei libri”.)


“Un libro che fotografa in maniera cinica e spietata i tempi di oggi. Pur non essendo un thriller, la tensione narrativa viaggia a livelli molto alti rendendo il romanzo una specie di matrioska dell’inquietudine che in un perverso gioco di specchi riesce a raccontare la parte oscura di ognuno di noi.” (Andrea Frateff-Gianni, “Il Foglio”.)


“Una lingua che tiene insieme molte cose – gusto della descrizione paesaggistica dai toni espressionisti, dosaggio della suspense, capacità introspettiva soprattutto per quanto riguarda l’insegnante protagonista – con un potente effetto di realtà”. (Andrea Carraro, www.succedeoggi.it.)


“L’intreccio costruito dall’autore con respiro freddo e linguaggio limpido ci avvolge come una ragnatela” (Rita Guidi, “La Gazzetta di Parma”).


“Montanari dà una prova matura e convincente, poiché se da una parte utilizza gli schemi della letteratura di genere (il thriller), dall’altra sa variarne in modo originale la prevedibilità” (Roberto Carnero, “Il Sole 24 ore”).


“Montanari racconta il nostro tempo, con una narrazione senza tempo, e uno stile incisivo e incalzante che fruga impietosamente nelle cicatrici della vita: alcune più evidenti, come quella che sfigura il volto del protagonista, altre molto meno visibili e spesso più feroci, che sfregiano tanto i padri quanto i figli” (Davide Di Finizio, “La mansarda di Ipponatte”).


“Un apocalittico confronto tra forze generazionali contrastanti, di assoluta attualità. Ciò che è antico sembra essere scritto nella roccia in questo ambiente rarefatto… La scrittura evocativa e la singolare capacità dell’autore di creare trame si fondono in una storia di tensione dal ritmo incalzante, in cui i peggiori incubi prendono corpo e voce, mostrandoci in un crescendo inquietante i mali estremi della nostra società” (Bianca Garavelli, dalla motivazione per l’assegnazione del premio Provincia in Giallo 2019).








Visto da me

Tutte le storie che ho scritto raccontano un combattimento fra il Bene e il Male. Un Male che non sta solo da una parte ma deve macchiare anche l’eroe: la vita è fatta di chiaroscuri, non di tutto bianco e tutto nero. Questo romanzo nasce da uno strano incrocio.
Alla base di tutto c’è lo sgomento che provo di fronte al mutamento antropologico delle nuove generazioni, alla loro anaffettività e anestesia sociale, di cui vedo tracce sia nei ragazzi che conosco personalmente sia nelle cronache dei giornali e negli studi dei sociologi. Questo sentimento mi ha suggerito il personaggio di Rudi, il sedicenne geniale e satanico in cui Marco cercherà fino all’ultimo un’umanità che nonostante tutto gli sembra di intravedere.
Ma c’è stato anche l’incontro, nell’estate del 2016, con un vecchio misterioso su un ponte in Slovenia. Abbiamo guardato l’acqua fianco a fianco e scambiato poche parole gentili, lui in un italiano perfetto. Vedendolo allontanarsi ho pensato: “Che segreti possono nascondersi dentro quest’uomo così cortese, dignitoso?”. Così è nato il maggiore Mladen Kurjak, il grande peccatore che, come me, non si perdonerà mai le proprie colpe.
Mi accorgo di aver parlato solo dei due personaggi più negativi del romanzo, ma in fondo di cos’altro si dovrebbe parlare? Il protagonista, con le sue debolezze, la sua sensibilità, il suo sguardo sul mondo, siamo sempre noi; sono gli antagonisti a creare le storie che leggiamo e che raccontiamo. I promessi sposi esistono grazie a don Rodrigo, a Gertrude, all’Innominato, altrimenti sarebbero la banale cronaca dell’amore fra due contadini lombardi e finirebbero a pagina 20.
Hitchcock diceva che il film è riuscito quando è riuscito il cattivo. Forse il cattivo, semplicemente, è il mondo: è tutto ciò che si oppone alla realizzazione dei nostri desideri, tutto ciò che ci complica la vita e per questo la rende interessante.

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La prima pagina

Per raccontare quella che è stata forse l’unica vera avventura della mia vita, e di sicuro la più sinistra e impressionante, devo tornare con la memoria a quel primo viaggio che feci il 2 settembre del 2016, dopo aver accettato un incarico come professore alle scuole medie inferiori di un piccolo paese di cui non avevo mai sentito il nome.
Il paese era in cima a una valle lombarda e la strada provinciale che saliva verso la montagna costeggiava un fiume. La mia meta era a poco più di cento chilometri da Milano, ma per quanto conoscessi la valle non ero mai stato fin lassù. Avevo appuntamento con il preside della scuola per le tre del pomeriggio e due ore dopo avrei dovuto vedere la persona che si era offerta di affittarmi un appartamento, sempre ammesso che non venissero fuori brutte sorprese.
Nubi bianche e fioccose, stranamente basse, velavano a tratti il sole. Guidavo con calma lungo la provinciale semideserta, in un paesaggio dove man mano che salivo tutto si faceva più stretto. Il fiume, laggiù, era ormai ridotto a poco più che un torrente, con sponde ghiaiose, bianchissime, nascoste qua e là dalle acacie e da arbusti le cui fronde mostravano quel verde cupo, violento, che fa già presagire il giallo e il marrone. Ogni tanto vedevo dei pescatori frustare l’acqua azzurra con canne corte e lenze colorate. Ma era soprattutto il cielo a stringersi, perché la valle si faceva sempre più angusta e le vette delle montagne a destra e a sinistra si avvicinavano, come se prima o poi dovessero serrarsi.
Lungo la strada, distanziati di sei o sette chilometri uno dall’altro, erano sgranati pochi borghi che non avevano da offrire molto più di un distributore di benzina e un bar, e brutte case disseminate intorno all’immancabile campanile. I bar erano sempre verandati e ai tavoli vedevo seduti dei vecchi con il bicchiere in mano, che giravano lentamente la testa per guardarmi. Ricordo che dovetti fermarmi a un semaforo e che un gruppo di questi valligiani – saranno stati quattro o cinque – smisero di parlare e rimasero a fissarmi con i loro occhi chiari e liquidi. Eppure dovevano essere abituati ai turisti, pensai. Ma forse quassù turisti non ne arrivavano, o io non avevo l’aria di un turista. Quando scattò il verde sorrisi e feci un cenno di saluto. Nessuno rispose.