Raul Montanari




E' di moda la morte



Dalle note di copertina

Stilisti e consulenti d’immagine, pubblicitari e pierre, veline e autori televisivi: dove si rintanano, quando tutti i flash sono spenti? Quali sono i loro sogni segreti? Che forma hanno le ombre che si portano dietro?
Protagonista di questi racconti è l’umanità che abita lo spazio della moda: universo che scintilla, segna il tempo, gli dà il verso e immola corpi al desiderio comune. Sesso e cervello, dietro le quinte di una sfilata, fanno cortocircuito. Sullo scintillio che ne deriva si ferma lo sguardo di Raul Montanari. Che scruta e registra: vite davanti a un crepaccio, amicizie in maschera pronte a sbriciolarsi, ferite cui ci si affeziona. Milano, più che sullo sfondo, sta in rilievo: “nottaiola” e “fintocordiale”, stringe come un recinto persone e personaggi; si mostra talvolta stanca e sfatta: come dopo una sfilata. C’è allora chi ne fugge via: per esempio Nadia, quando ritrova i suoi incubi di bambina. O c’è chi la attraversa inquieto: come le modelle che hanno addosso odore di stanchezza; come il tassista che le accompagna verso destini oscuri. Ma niente è come all’apparenza sembra: in questi racconti a orologeria, le vicende si complicano improvvisamente, prendono direzioni pericolose. Un grido strozzato o l’eco di uno sparo stridono come l’unghia che tira via una patina d’oro. La Moda e la Morte - lo dice un antico dialogo leopardiano - hanno parecchio da dirsi. E in queste pagine, quasi appunti per una futura operetta morale, sembrano avere ripreso, coraggiosamente, il discorso. Perché la verità è dietro, è in fondo, oltre la moda e ogni moda - e spesso fa male.






Giudizi Critici

"Una Milano noir dove ai backstage si sono sostituiti i “blackstage”: le passerelle si coprono di rosso sangue tra incubi e misteri, coltelli e sorrisi "(Gian Paolo Serino, «Repubblica»).

"Raul Montanari con questa raccolta torna al racconto: un genere che gli è congeniale perché gli consente di esprimere al meglio le sue doti di narratore e, soprattutto, di scrittore. Come nelle pagine che descrivono l’incubo del protagonista de I lupi. O come in L’altro capo del filo, che narra la fine di un amore e si chiude con l’immagine di un veliero: e qui è dove la scrittura diventa poesia" (Martina Cossia Castiglioni, «Milano Finanza»).

"Alle sfilate c’è paura, non gioia" (Alessandro Beretta, «Il Corriere della Sera»).

"Se qualcuno lo conosce personalmente non gli parli di questa recensione. Non è colpa mia se E’ di moda la morte è proprio carino" (Daria Bignardi, «Donna moderna»).

"Stilisti che uccidono e si uccidono, modelle ammazzate, giornaliste fatte fuori in una sorta di catarsi diabolica. A volte a morire è solo l’amore. E in una cornice incongrua alla morte come quella della moda, il contrasto si fa acuto. Montanari ci sguazza. E spiazza il lettore, prendendosi gioco delle intuizioni verso cui l’ha abilmente guidato per ribaltarle" (Alessandra Casella, «Velvet»).

"Uno dei nostri migliori autori di noir si vendica, con humour e rabbia, della città in cui vive, Milano" («XL»).

"Nella forma contratta e immediata del racconto il genio di Montanari riesce a esplodere con vigore sorprendente, una spinta improvvisa, senza esitazioni... La sua magistrale sapienza nel far resuscitare pietà dimenticate. Pietà verso mostri arresi, verso vittime più o meno consapevoli, una pietà totale e totalizzante" (Ade Zeno, «Liberazione»).

“La metropoli degli stilisti, consulenti d’immagine, pubblicitari, pierre, veline e autori televisivi, sembra veramente una brutta donna imbellettata... stanca e sfatta come dopo una sfilata” (Luca Marchesi, «Libero»).

“Uno scrittore che sa cos’è la sofferenza, la crudeltà e la pietas... La scrittura è sempre quella nitida, cristallina, che è uno dei suoi marchi di fabbrica... un’osservazione netta e implacabile” (Franz Krauspenhaar, «Il domenicale»).

“La raffinatezza intellettuale di uno scrittore che recupera un dialogo tra Moda e Morte...” (Elena Valdini, «Il giorno»).





Visto da me

Sono dieci racconti scritti nell’arco di cinque anni. All’origine ci sono quattro pezzi che mi vennero commissionati da «Amica» nel 2001: mi chiesero di scrivere dei brevi “gialli” sul mondo della moda; io obiettai che nello spazio esiguo che avevo a disposizione era impossibile scrivere dei gialli, cioè delle detective story, e che casomai potevo scrivere dei noir, ossia dei racconti in cui sullo sviluppo della trama prevalessero l’atmosfera e i personaggi, con una nota dominante di tensione e violenza. E così fu.
A quei racconti se ne sono aggiunti altri. Alcuni sono la prosecuzione di quel progetto, altri invece si staccano nettamente, pur continuando ad avere a che fare con la dimensione allarmante della milanesità. Per esempio, Tu mi conosci ma non sai chi sono è essenzialmente un racconto erotico e anche comico. Il più anomalo di tutti è I lupi, che è stato scritto per un’antologia tedesca di autori europei (Europa mordet, ovvero L’Europa uccide, Ullstein 2004) su un tema apparentemente alieno: raccontare un omicidio legato a un premio letterario. Mi è venuto in mente che un premio letterario tipicamente italomilanese poteva essere un concorso di bellezza per scrittori e su quest’idea, che all’inizio sembrava una scemenza, è venuto fuori uno dei racconti migliori che ho scritto negli anni 2000. Almeno, così penso io.






La prima pagina

L’intervistatrice ormai è in ginocchio: “Questa è la prima volta che a una troupe televisiva viene permesso di girare nel backstage di una sfilata nel pieno svolgersi della sfilata stessa! Una cosa da capogiro, credetemi” assicura rivolta al cameraman che la sta riprendendo.
Lo stilista se ne sta seduto su uno scranno stile impero romano, a dieci metri da me; ma lui non sa che sono qui. Si fa aria con un bouquet di fiori e la guarda storto, mentre tutt’intorno c’è una confusione micidiale. Una musica funebre avvolge imparziale modelle, truccatrici, assistenti, parrucchieri e gente dall’aria spaesata.
“Per quello che servo io adesso, potrei starmene a casa. Alain e Niccolò, i miei assistenti, sono in grado di dirigere la sfilata alla perfezione. Io il mio lavoro l’ho fatto in questi mesi, oggi sto solo titillando il mio narcisismo.”
“Ma certamente!” annuisce l’intervistatrice. “Il suo lavoro infatti… bla bla...”
Mi sposto alla mia destra perché uno stand carico di appendini mi disturba la visuale, qui dietro la parete mobile che ho scelto come nascondiglio. Tiro fuori l’automatica e avvito il silenziatore sulla canna.
“Dei materiali non parlo” sta blaterando lui. “Si compri un vestito e gli faccia l’autopsia…”
“Oh oh oh!” si sganascia l’intervistatrice.
“…tanto la veste senza il corpo è un cadavere, la spoglia di una crisalide. Io parlo solo di idee, perché lavoro solo su idee.”
Una donna sbuca dalla mia parte e mi guarda. Io mi infilo la pistola nei pantaloni, dietro la schiena, e sorrido benevolo ravviandomi la chioma completamente bianca. Lei ha un paio di occhiali molto sexy. Se ha visto la pistola la cosa non le ha fatto nessuna impressione, in mezzo a questa babilonia. In compenso lancia un’occhiata incuriosita al mio completo Caraceni, che qui è quasi una bestemmia; poi prende tre giacche e se ne va.
“In realtà questa intervista è inutile” vaneggia lo stilista. “Oserei dire anzi che anche la sfilata è inutile.”
L’intervistatrice è soggiogata: “In che senso?”.
“La mia idea della donna è completamente riassunta dalla musica che stiamo ascoltando. Se io avessi solo la metà del rigore che gli addetti ai lavori mi attribuiscono, in questo momento la passerella dovrebbe essere vuota, l’aria riempita da queste armonie. Esse sono la donna. E tutti giù a prendere appunti!”
“Grande idea” mormoro io, contemplando una bionda nuda con una calza su e una giù, che mi dà la schiena. Credo che le ragazze mi piaceranno fino alla fine.
“Quindi per lei Beethoven…”
“Stiamo ascoltando Mahler, non Beethoven.”
La tipa di prima viene di nuovo a servirsi nel mio angolino.
“Hai visto Krewsthzgnall?” mi chiede. A me sembra che pronunci un nome del genere, ma non potrei giurarci.
“Chi?”
“La ragazza, quella coi capelli new rasta.”
“E’ andata di là” rispondo a caso. Lei si incammina, carica di abiti.
Mi guardo il dorso della destra, vedo una macchia scura che ieri non c’era. O forse c’era già? Ormai sono pieno.