Raul Montanari




Chiudi gli occhi



Dalle note di copertina

Cosa ci manca oggi dei romanzi che abbiamo letto da giovani? Forse la semplice gioia di una grande storia che ci accompagni a lungo, con i suoi personaggi, fino al brivido e alla malinconia dell’ultima pagina.
Un paese sonnecchia sulle rive di un lago del Norditalia, apparentemente tranquillo, in realtà percorso da silenziosi rancori, conflitti razziali, debolezze inconfessabili, e su tutto e dappertutto il sesso con la sua potenza sottile e distruttiva, estrema risorsa per dare un senso a vite annoiate. Ma questo sonno illusorio culla anche l’incubo di un delitto avvenuto tredici anni prima: lo stupro e l’assassinio di una ragazza innocente. E la quiete si spezza quando nel paese ritorna Andrea, che all’epoca tutti avevano considerato colpevole di quell’infamia. Il suo arrivo fa esplodere tutte le tensioni: la ricerca della verità sul delitto, in cui Andrea si trova al fianco un prete ateo, un enigmatico immigrato islamico, una ragazza infelice e meravigliosa, assume le cadenze irresistibili di una resa dei conti collettiva, scandita da colpi di scena che nel finale rovesceranno ogni certezza.
Al tempo stesso thriller e sorprendente romanzo sociale, immersione nelle voragini dell’Io e perfetto meccanismo di suspense, questo libro ci restituisce il piacere di una lettura ampia, di grande respiro, in cui il lettore finisce per scoprire, nel ritratto del paese, i lineamenti del proprio volto. Delle proprie paure e passioni.






Giudizi critici

“Montanari è uno scrittore della stessa categoria di Ammaniti” («Smemoranda Brothers & Sisters»).

“Un palcoscenico dove si rappresenta, senza copione, il fulcro della tragedia umana e delle sue miserie morali” (Fulvio Panzeri, «L’Avvenire»).

“Un thriller forte, avvolto da erotismo” (Erica Arosio, «Gioia»).

“Quattrocento pagine davvero avvincenti... la macchina narrativa, servita da una scrittura fluida e spietata, incolla il lettore alla pagina con un crescendo che alla fine deflagra in una serie di colpi di scena rivelatori” (Giuseppe Caliceti, «Liberazione»).

“Personaggi indimenticabili” (Martina Cossia Castiglioni, «Milano Finanza»).

“Una Twin Peaks lombarda” (Mariella Radaelli, «Il Giorno»).

“Ancor più che dei delitti, ci parla con maestria degli animi da cui nascono” (Alessandra Casella, «Oggi»).

“Una trama affascinante” («Il secolo XIX»).

“Un narratore che non gioca a far letteratura, ma scava senza indulgenze nei bassifondi dell’anima... con l’entusiasmo di costruire trame, situazioni e personaggi che si conquistano un posto al sole nell’attenzione di lettori” (Sergio Pent, «Tuttolibri»).

“Un timoniere che conosce perfettamente le regole per condurre la sua nave in porto... un narratore di storie piene di vita e movimento, capace di spingere la tensione fino ai limiti più estremi” (Tobias Haberl, «Der Spiegel»).

“Montanari è uno dei migliori scrittori italiani di oggi” («Bild am Sonntag»).






Visto da me

Dio mio, quanto ero felice quando ho scritto questo libro! E’ difficile spiegare il perché ma ero felice, e alla lettura si sente benissimo. Fra i miei libri, è quello che fa godere di più il lettore.
E’ stato scritto quasi di getto, 470 pagine in un mese e mezzo, poi ridotte a 390. Nella mia storia personale è un libro cruciale, perché mi ha portato fuori dagli anni ‘80 e ’90: tutti i romanzi e racconti usciti in precedenza erano stati scritti in prima battuta in quel ventennio e poi variamente rielaborati, mentre questo era proprio nuovo.
E’ stata una sorpresa per me che abbia venduto un po’ meno del duro Che cosa hai fatto; in compenso il gradimento dei lettori è sempre stato altissimo. Se dovessi scegliere un libro che mi rappresenta con la massima approssimazione possibile, sarebbe questo. Per la prima volta mi sono liberato di ogni ossessione simmetrica, delle residue tracce di intellettualismo, e ho fatto solo lo storyteller, il narratore puro, adorando ogni singolo personaggio e cercando di rendere giustizia anche ai più biechi. Penso che la Dora di Chiudi gli occhi batta anche l’Adriana della Perfezione, finora considerata il mio migliore personaggio femminile. Davvero faccio fatica ad avere riserve verso Chiudi gli occhi, e per me è una rarità. Gli voglio bene.






La prima pagina

Loris urlava, rideva e bestemmiava mentre la cabriolet nera sbandava lungo i tornanti della vecchia provinciale, scendendo verso il lago ancora invisibile.
Erano le tre del pomeriggio, il sole di metà maggio faceva del suo meglio e sulla strada non c’era nessuno. La radio era spenta, il rumore del motore e le grida di Loris gonfiavano l’abitacolo. Spinse l’auto oltre i centoventi, su un rettilineo. Frenò a non più di trenta metri dalla svolta, lasciando una lunga scia di gomma nera sull’asfalto.
L’auto si mise di traverso nella curva. Invase la corsia opposta, sotto gli occhi di una donna che stendeva i panni sul balcone di una casa isolata.
Loris strinse le dita a mazzo e sporse il braccio dal finestrino.
“Vaffanculo, stronza! Cosa guardi, stronza!”
Tirò su col naso e diede controsterzo, con tale violenza da sentire una fitta di dolore a una scapola. La BMW nera, infelice e impolverata, con il paraurti posteriore ammaccato, scodò e proseguì. Altra curva, altra frenata: la fiancata destra della macchina fece volare per aria un cassonetto bianco per la raccolta della carta. Lo vide rotolare alle sue spalle nello specchietto retrovisore, come se volesse inseguire il suo investitore. L’ultimo tornante, poi finalmente il lungo rettilineo che aspettava. Loris tolse i piedi dalla pedaliera e le mani dal volante, incrociò gambe e braccia come un fachiro e lasciò che l’auto filasse giù per la discesa, senza controllo. Quando era piccolo, suo padre spesso faceva così.
La BMW prese velocità. Tirava leggermente a destra, lui corresse una o due volte la direzione toccando il volante con le ginocchia. Stava al centro della strada. La linea tratteggiata dello spartitraffico spariva sotto le ruote e sbucava dietro, allungandosi alle sue spalle come una cerniera lampo.
“Aaaaaaaaaaah...!” gridava Loris, un lungo urlo in apnea. Spinse avanti la mandibola, fece schioccare i timpani e l’urlo cominciò a premere contro le orecchie dall’interno.
Il motore saliva di giri, l’auto accelerava. Novanta, cento.
Un ciclista sbucò da un cancello. Si voltò, lo vide, si buttò a terra. L’auto passò sopra una ruota della bici, che miagolò metallica, contorcendosi. Il grido di Loris finì in uno scoppio di tosse e riso, e l’omino nello specchietto alzò le braccia, come per arrendersi.
“Aaaaaaaaaaah...” riprese Loris.
La BMW accelerava. Centodieci. Centoventi.
Il tornante in fondo al rettilineo si avvicinava. Un insetto enorme, che forse era un calabrone o un bombo, si suicidò tonfando contro il parabrezza e trasformandosi in un impiastro di zampe, antenne e sangue bianco. Loris si distrasse un secondo a osservarlo, incuriosito. Tirò su col naso mandandosi il muco in gola, e quando tornò a guardare davanti a sé la svolta era a non più di venti metri.
“Cazzo!”
Afferrò il volante e districò le gambe dal sedile, picchiando una frenata disperata con un piede sopra l’altro. L’auto gridò di dolore, sbandò, tagliò in diagonale la curva e uscì di strada, centrando per miracolo un varco nel guard-rail e infilandosi in un sentiero sconnesso. Sobbalzando, in una nuvola di polvere, la BMW travolse un paletto di legno e andò a fermarsi contro un mucchio di sterpi, sfregiandosi il muso.
Il motore si spense.