Raul Montanari


Articoli e saggi e brevi



Ho avuto molte occasioni di scrivere su argomenti letterari, molte più su argomenti NON letterari – in particolare, eros, sentimenti, cultura, società, questo tipo di cose. Varie centinaia di articoli e saggi brevi per quotidiani, riviste, libri. Per non appesantire questo spazio, mi limito a riportare dieci pezzi che mi stanno particolarmente a cuore. Magari ne aggiungerò altri man mano che la vita procede e gli anni si accumulano.






1. Su Cormac McCarthy per «Pulp» (1997).
2. Sul non detto per antologia Feltrinelli (1997).
3. Sul noir per «Effe» (1998).
4. Critica televisiva Per «Il Nuovo» (2002-2003).
5. Su Aldo Nove per «Vita» (2003).
6. Su Giuseppe Pontiggia per «Nazione Indiana» (2003).
7. Su musica e scrittura per No Reply (2004).
8. Sul tradimento per «D» (2005).
9. Sull’eros per Marie Claire (2006).
10. Lettera sul pacifismo al «Corriere della Sera» (2003).
11. Sul male (maschile) di crescere per «D» (2007).
12. Su Manzoni per "Satisfiction" (2008)
13. Su Milano per "Liberazione" (2007)
14. Sul Post-noir per "Satisfiction" (2009)
15. Sul burqa per il blog "Piovono rane" di Alessandro Gilioli (2010).
16. Tre pezzi sulla "differenza delle donne" (2010-2012).
17. Sul calcio (Facebook, 2012).
18. Quel che devi dare al lettore (Facebook 2013).
19. Il mestiere del maschio (“Grazia” 2020).




1. Negli anni ’90 ho tradotto più di venti testi letterari. L’autore a cui ho finito per essere associato in questa veste è il grande scrittore americano Cormac McCarthy. Nel ’97 la rivista «Pulp» mi chiese un pezzo di una certa ampiezza su questo autore. Tenerissima la “scommessa” finale, che la storia avrebbe dimostrato insensata dato che Tiziano Scarpa attualmente si occupa di tutto tranne che di fare narrativa nel senso tradizionale che intendevo io qui.

APOCALYPSE WEST - CORMAC MCCARTHY IN SETTE PUNTI
(“Pulp”, 10, novembre-dicembre ’97)

1. La storia personale di Cormac McCarthy - la new sensation Einaudi di fine millennio - è profondamente diseducativa, perché è di quelle che instillano nelle giovani menti degli aspiranti scrittori, e quindi potenzialmente di tutti gli italiani che non siano già impegnati in professioni gratificanti come il calciatore o il serial killer, l'idea che alla fine la giustizia trionfa, la qualità s'impone, il tempo è galantuomo, il lavoro paga e via dicendo. Può darsi che in America sia così (i miti sono duri a morire, essendo di norma nient'altro che verità accertate). McCarthy è nato nel 1933, ma solo nel 1992, alla soglia fatale dei sessanta e con cinque romanzi uno più sbalorditivo dell'altro alle spalle (The Orchard Keeper, 1965; Outer Dark, it. Il buio fuori, 1968; Child of God, 1973; Suttree, 1979; Blood Meridian, it. Meridiano di sangue, 1985), arrivano per lui la consacrazione critica universale e il successo di pubblico con All the Pretty Horses, it. Cavalli selvaggi, che non era migliore dei libri precedenti. E adesso, guardate cosa scrivono di lui...

2. Giudizi critici su Cormac McCarthy (gli americani hanno l'abitudine di ficcarli dappertutto, nei libri: in copertina, in prima pagina, in quarta di copertina, ecc. Questi ve li traduco dall'edizione tascabile di Blood Meridian. Sono tutti azzeccatissimi, ci fanno capire bene con chi abbiamo a che fare):
"Un classico romanzo americano di rigenerazione attraverso la violenza. McCarthy può essere paragonato solo ai nostri scrittori più grandi, a Melville e Faulkner, e questo è il suo capolavoro", Michael Herr. "Il libro sembra un mix dell'Inferno, dell'Iliade e di Moby Dick... un risultato straordinario, da mozzare il fiato", John Banville. "Un western che evoca tanto lo stile di Sam Peckinpah quanto quello di Hieronymus Bosch... McCarthy elabora una retorica neobiblica, una lingua vertiginosa, pulsante, sconvolgente, senza eguali nella letteratura americana contemporanea", Alan Cheuse. "McCarthy è uno scrittore da leggere, da ammirare e - in tutta onestà - da invidiare", Ralph Ellison. "McCarthy è un narratore nato, e ogni singola riga della sua scrittura è incisiva quanto la realtà stessa. Egli è fra noi per durare", Robert Penn Warren. "McCarthy è uno scrittore del migliore stile sudista, quello che fonde audace eloquenza, ritmi intricati e spietata precisione", «The New York Times». "Cormac McCarthy è un uomo del Sud, un cantastorie nato, uno scrittore dal dettato naturale e impeccabile, un figlio letterario di Faulkner... capace di porre una giusta dose di comicità nera nel cuore stesso della tragedia", «New Republic». "La prosa lirica di McCarthy non sacrifica mai l'economia che un narratore deve imporsi, e il suo senso del tragico è pressoché infallibile", «Times Literary Supplement».

3. McCarthy non è stato scoperto dal pubblico e imposto a una critica dormiente, piuttosto il contrario. Dopo Meridiano di sangue, del 1985, la grandezza di questo scrittore era così evidente che un gruppo di studiosi ha dedicato al romanzo un libro di commento molto bello e curioso, Notes On Blood Meridian, trattandolo non come un'opera contemporanea su cui esprimere giudizi prudenti e ponderati, ma come un classico d'altri tempi, un testo di Virgilio o di Shakespeare, per intenderci, dal valore artistico del tutto acquisito e ormai scontato. In Notes è presente perfino un «Lessico» in cui le parole-chiave del romanzo vengono profondamente analizzate, esattamente come si fa con i grandi di ogni epoca (generalmente, però, dopo che sono morti). Era probabilmente impossibile che McCarthy diventasse un autore popolare senza un appoggio appassionato della critica, perché la sua scrittura, come avrete dedotto dalla rassegna di giudizi riportati, richiede spalle larghe e uno stomaco a prova d'ulcera, non è di quelle che assicurano un successo popolare spontaneo. Per questo non sono del tutto d'accordo con Fernanda Pivano quando dice di lui: "il cuore americano lo ha premiato per aver riportato la narrazione nelle verdi praterie". In realtà, se un editore avesse compiuto il tentativo di farlo passare per autore di semplice e suggestiva narrativa western l'imbroglio sarebbe stato smascherato subito, perché del western Cormac assume i paesaggi e l'illegalità diffusa, non certo l'etica johnfordiana e men che meno i moduli problematici e decadenti degli anni '70 o quelli stilizzati del decennio successivo. Il western di McCarthy è come la Los Angeles di Blade Runner o il Vietnam di Apocalypse Now: un luogo della libertà assoluta, un inferno darwiniano dove sopravvivere è il fine primario, per uomini e animali. Un iperspazio gremito di violenza cieca e insensata, dove da ogni angolo possono uscire i personaggi più impensati, in ogni momento crearsi le situazioni più esplosive.

4. Nonostante l'importanza che la critica ha avuto perché la sua opera fosse conosciuta e capita (e non dai good ole boys, fra strippate di fagioli e schitarrate country, non credo; piuttosto, da un pubblico di gusti molto moderni e scafati) la fortuna del nostro esula totalmente da frequentazioni di salotti letterari, redazioni e simili. Qualcuno e qualcuna che ho in mente io non ci crederanno, ma è così. La sua misantropia è leggendaria, e lo accosta per certi versi a un altro grande - anzi, sommo - profeta visionario della nostra epoca, Stanley Kubrick. Di soli cinque anni più vecchio di lui, Kubrick vive in una specie di castello alla periferia di Londra, mentre McCarthy, almeno per quanto ne sappiamo io e Marisa Caramella che mi ha chiesto di tradurlo per l'Einaudi da qui all'eternità, se ne sta rintanato in un ranch a El Paso, in Texas, e spara a vista su chiunque si avvicini. Ogni tanto finisce la biada per i cavalli, e allora scrive un nuovo romanzo. L'anno scorso Marisa voleva provare ad andare a trovarlo nel ranch (io per fortuna ho paura di volare, e non potevo venire coinvolto). «Secondo me odia le donne» si lamentava Marisa. «Lo si capisce benissimo da quello che scrive. Appena mi vede dal corral, corre a prendere il winchester.» «E tu travèstiti da bisonte» le ho suggerito io. «Perché» ha ribattuto lei «dici che un bisonte non lo prenderebbe a fucilate?». Non ho insistito.

5. McCarthy racconta storie di una crudeltà assoluta, ma la sua magia è quella di non suscitare mai il sospetto del compiacimento o dell'inverosimiglianza. Hai la netta impressione che il buon vecchio West fosse davvero così, con gli indiani puzzolenti, imbroglioni e sodomizzatori, i messicani quasi più sordidi che nelle avventure di Tex Willer, i negri perlopiù deficienti o di tanto in tanto statuari e sinistri, i giudici più crudeli di Dio stesso, la vita di tutti alla mercé di qualunque farabutto, facce sfregiate, corpi deformi, assi di legno stese su cortili fangosi, puttane orripilanti e reperibili solo dal quintale in su oppure consumate dalla tisi e peggio, città che sono ammassi di baracche, sole e pioggia ugualmente insopportabili, sentimenti aboliti (compresa, quasi sempre, la mitica amicizia virile), rarissime oasi di umanità, generosità, cortesia che fanno risaltare ancora di più il deserto che le circonda. E se per caso al lettore non importa niente del vecchio West, nulla cambia: il fascino di questi libri resta intatto, perché senti fin dalla prima pagina che il West è solo un grandioso pretesto per sfogare un pessimismo cosmico e onnicomprensivo, un anarchismo spietato e intollerante, che solo grazie al miracolo della scrittura diventa materia d'arte.

6. Cos'ha allora di speciale, questa scrittura? Intanto è difficilissima da tradurre. McCarthy ha un lessico sterminato, sembra conoscere il nome di tutte le forme vegetali, minerali e animali, ogni tanto si lancia in descrizioni di oggettistica d'epoca degne di un collezionista impazzito - armi, utensili, bardature, vestiti, bare - poi alza lo sguardo al cielo e allora giù con costellazioni, fenomeni meteorici, digressioni climatiche, e mi fermo qui. La sua sintassi oscilla tra la frammentazione drammatica dei dialoghi (tutti scritti senza usare le virgolette, uno dei suoi marchi di fabbrica), spesso ridotti a lunge sinuose sequenze di una, due parole per battuta, e le architetture grandiose delle parti descrittive e narrative, tanto più intricate e travolgenti quanto più dinamiche sono le scene. La prosa del nostro accelera e rallenta, si espande e si contrae, pulsa, scandita da un ritmo di fondo molto particolare, dondolante, che tra parentesi è la cosa più difficile da rendere in italiano (lo so, lo so che a voi non importa un accidente dei miei problemi. Mi ci arricchissi, almeno). Avrete notato che nei giudizi su Cormac ricorre, più o meno esplicito, il richiamo all'epica. Si parla della Bibbia, di Omero, di Melville. In effetti l'epica non è altro che una narrazione in cui gli aspetti materiali della vita prevalgono sulla descrizione delle motivazioni psicologiche dei personaggi. McCarthy (come la Bibbia, Omero, i tragici greci, Virgilio e giù a scendere fino ad arenarsi all'Ottocento e alla stramaledetta invenzione del romanzo psicologico - ah, Henry James! - e del teatro borghese) si disinteressa della psicologia dei personaggi. I suoi sono caratteri, tipi umani alle prese con necessità talmente elementari (accendere un fuoco, tamponare una ferita, trovare da mangiare, ammazzare prima di essere ammazzati) che chiunque di noi nei loro panni si comporterebbe come loro; con maggiore o minore furbizia, abilità e spietatezza, d'accordo - ma non infilandoci dentro complessi edipici irrisolti o cose del genere. Epica vuol dire mito, vuol dire fiaba. Pollicino non ha una psicologia, eppure la sua storia è interessante, non ci dà affatto l'impressione di essere banale o priva di significati profondi, anzi. Abbassandosi al livello terrigno della materia, del fango e del metallo, McCarthy innalza le proprie storie al livello del mito e della narrazione assoluta.

7. In un romanzo di Rex Stout di cui non ricordo il titolo, un tale si presenta a Nero Wolfe e gli dice: "Sono qui perché lei è il più grande investigatore del mondo". Stranamente in vena di understatement, Nero replica: "Per quanto ne sappiamo noi, può darsi che il più grande investigatore del mondo sia lo stregone di una tribù africana. Diciamo che io sono il più grande fra quelli conosciuti". Dopo aver letto Meridiano di sangue, qualcuno ha detto che forse McCarthy è il più grande scrittore vivente. A me personalmente l'ha detto anche Luca Doninelli, che a Nero Wolfe un po' somiglia. Bene, per quanto ne so io, il più grande scrittore vivente è probabilmente un minimalista delle isole Vergini che scrive su cortecce d'albero; però, fra quelli conosciuti...

Post Scriptum pulpfictioniano - una profezia e un augurio. Io ora vedo nel vostro futuro! Vedo Tiziano Scarpa un po' invecchiato, frusto e consunto, gli occhi cerulei balenanti fra rughe molto pittoresche, il cranio immutato (è già pelato adesso), otto o dieci romanzi alle spalle, diciamo, sempre più stanco di funambolismi, sempre più annoiato da tutto ciò che non sia pura e semplice narrazione, ossia la negazione (apparente) di ciò che (apparentemente) ha fatto finora, della parte più affascinante e più caduca del suo lavoro. Lo vedo scrivere, raccontare una storia e basta, finalmente, e scoprire riga dopo riga che è la cosa che sa fare meglio, e che solo lui può farlo bene come quel finto cowboy morto da chissà quanto con il suo traduttore. Un rumore di zoccoli dal corral, Scarpa alza la testa, prende il winchester e apre il fuoco su Marisa Caramella travestita da bisonte. Poi si siede e ricomincia a scrivere.






2. Nel maggio del ’97 la Feltrinelli regalò ai librai una raccolta di pezzi firmati da propri autori, intitolata Come un libro. Leggere e scrivere Feltrinelli. C’erano Benni, Freccero, Starnone, Ferri, Baricco, De Luca, Piccolo, Serra, Voltolini, Riotta, Tabucchi, Celati e, in chiusura, io. Nel pezzo viene di nuovo citato con ammirazione Scarpa, e più precisamente il primo suo racconto che mi era capitato sotto gli occhi, circa un anno prima (il riferimento bibliografico è stato poi aggiornato).

DETTO, NON DETTO
Sette brevi tesi sul non detto nella narrativa

1. L'operazione fondamentale di chi scrive è di segno positivo: lo scrittore prende una pagina bianca e la riempie. È impossibile per lui lavorare a togliere, come invece è possibile allo scultore che parte da un blocco di granito. La pagina può essere bianca come quella di un quaderno, fine o spessa, totalmente spoglia o attraversata da righe o ricoperta di quadretti, può essere un bianco elettronico come quello che occhieggia dallo schermo del PC, sporco di grigio bluastro e tramato sul fondo da indizi di strane architetture che una regolazione del contrasto o della luminosità può far scomparire.
La pagina bianca è un altare. È l'unica cosa che ho in comune con Kafka, con Virgilio, con i grandi che mi hanno preceduto. Ecco, come scrivo la prima, la seconda parola, mi stacco da loro: già non sono più con loro, non sono più loro. Purtroppo, sono io. (Ciò nonostante, non credo che uno scrittore degno di questo nome possa dimenticare in nessun momento che loro hanno attraversato la stessa soglia; se un uomo si siede davanti a un foglio bianco e comincia a scrivere senza avere l'umiltà e l'ambizione di entrare nel tempio della scrittura come ci sono entrati i grandi che l'hanno reso tale, se un uomo non ha l'umiltà di prendersi sul serio, se non ha l'ambizione di scrivere per ora e per sempre, come se l'inesistente Dio e tutta l'umanità dovessero leggere le sue parole, non è uno scrittore ma un idiota. Indipendentemente dai risultati, per non parlare poi del favore del pubblico.)

2. Eppure, una delle decisioni ineludibili della scrittura, in particolare della prosa narrativa, arriva quando si pone il problema se dire o non dire una certa cosa, se nascondere al lettore un'informazione, un senso, una verità, invece di metterglieli davanti. All'interno del lungo dire che è un racconto o un romanzo, si aprono regioni di non detto. La linea della narrazione qua e là si nasconde, si aggroviglia, oppure si assottiglia fino a scomparire. La vera direzione di questa linea, il vero senso di ciò che stiamo leggendo, a volte possono acquistare forza soltanto se sono tenuti a lungo nascosti.

3. Questo gioco a nascondino, tremendamente serio come lo sono tutti i giochi, può cominciare fin dal titolo. Nelle "Postille al Nome della rosa" Eco ci dà un divertente esempio di non detto con I Tre moschettieri, un romanzo il cui protagonista non èaffatto uno dei tre citati nel titolo, bensì il quarto. Molto prima di Dumas, Luciano aveva chiamato Storia vera quella che lui considerava una narrazione completamente fantastica e irreale. Senza bisogno di scomodare l'insensatezza dichiarata e programmatica della Cantatrice calva, già The Wings of the Dove di James o The Sound and the Fury di Faulkner alludono a qualcosa che non dicono, lasciano intravedere un senso che forse nemmeno la lettura completa del romanzo restituisce del tutto. E gli esempi potrebbero continuare all'infinito. Il valore informativo del titolo e della copertina di un libro, ciò che il libro ci dice subito di sé (insieme al nome dell'autore), hanno perso totalmente importanza di fronte al loro valore puramente suggestivo. Come nella pubblicità dei prodotti industriali, anche nella confezione esterna del libro più che ingredienti o informazioni per l'uso quello che passa al consumatore/lettore è una macchia, un alone emotivo, un brivido elettrico.

4. Come può agire il non detto nella strutturazione di una trama?
Osserviamo, per cominciare, che importanti generi letterari possono essere definiti proprio sulla base di ciò che viene detto o non detto da qualcuno a qualcun altro, ovvero dal "Chi sa che cosa?".
Ad esempio, nel giallo classico (la detective story) coloro che sanno - e non dicono - sono lo scrittore e l'assassino; coloro che cercano di sapere - o di farsi dire - sono il lettore e il detective, e non a caso molti autori, a partire dalle famose "Venti regole" di S.S. Van Dine, hanno insistito sulla necessità che investigatore e lettore siano effettivamente messi sullo stesso piano di ignoranza/conoscenza, che partano alla pari e possano entrambi arrivare a svelare il mistero. Al contrario, nel teatro classico il pubblico sapeva quanto sapeva l'autore: entrambi conoscevano il mito; a non sapere era invece il protagonista della tragedia. Edipo non sa cosa l'aspetta, il pubblico sì; per questo Sofocle può permettersi di far balenare continuamente nel testo allusioni, lampi di verità che aumentano la pietà dello spettatore per l'eroe e il suo senso di impotenza per non poterlo aiutare. Lo stesso meccanismo venne teorizzato due millenni e mezzo più tardi da Hitchcock per le storie di suspense: la suspense, dice Hitchcock, non è la sorpresa, non c'è suspense quando un uomo sta camminando tranquillamente per una strada e qualcuno sbuca da un angolo con una scure e gliela pianta in testa; c'è invece se noi abbiamo già visto l'uomo con la scure nascondersi dietro l'angolo, se sappiamo tanto quanto il regista a cosa sta andando incontro la vittima inconsapevole. Ancora: nel noir spesso nessuno sa un bel niente, forse nemmeno lo scrittore. Il noir è il magma, è il mondo intuito come confusione, una foresta inestricabile di segni. Molti narratori si sono persi volutamente nei meandri delle trame da loro stessi create. Durante le riprese del Mistero del falco, tratto da Hammett, a un certo punto il regista John Houston confessò di non capire più niente di quello che stava succedendo nella storia. Ma andò avanti comunque, come se continuare a girare il film - a scrivere il libro - fosse anzitutto un atto conoscitivo che valeva per l'autore più ancora che per il destinatario, come se proprio all'autore non fosse stato detto, o almeno non ancora, il senso della storia che stava raccontando.

5. Il modo più meccanico, ma non per questo meno ammirevole ed efficace, di usare il non detto in letteratura si trova perfettamente esemplificato nel racconto di Borges "Il giardino dei sentieri che si biforcano", contenuto nella raccolta Finzioni. Potremmo definirlo modo della deviazione, nel senso che la linea della narrazione procede retta per un certo tratto e poi improvvisamente assume una direzione inaspettata. Borges, nella Premessa alla sua raccolta, osserva: "i lettori assisteranno all'esecuzione e a tutti i preliminari di un delitto il cui scopo non ignorano, ma che non comprenderanno, mi sembra, fino all'ultimo paragrafo". Nel racconto, ambientato in Inghilterra durante la Prima guerra mondiale, Yu Tsun, un agente segreto al servizio dei tedeschi, deve comunicare qualcosa di importante al proprio capo, e non può farlo direttamente perché sta per cadere nelle mani degli inglesi. Cerca un nome su un elenco del telefono, va a trovare un uomo in una villa. L'uomo è Stephen Albert, sinologo, e il caso vuole che abbia dedicato la sua vita a spiegare un mistero che si nasconde proprio nella famiglia di Yu Tsun, un mistero grande e meraviglioso che ora viene svelato dallo studioso inglese alla spia cinese, in una conversazione densa di emozione e di incanto. Yu Tsun è pieno di gratitudine e di venerazione per l'uomo che ha di fronte, pieno di stupore per questo incontro miracoloso. Eppure a un certo punto estrae la pistola e spara, uccidendo il suo benefattore; perché il giorno dopo i giornali inglesi dovranno chiedersi il perché della morte assurda di Stephen Albert, e il capo di Yu Tsun capirà che Albert è il nome della città francese che sta per essere attaccata dagli inglesi, e potrà farne predisporre la difesa.
In questo racconto dall'architettura meravigliosa, come in molti gialli o più semplicemente in molte storie di mistero e di tensione, a un certo punto il narratore ci prende per mano e ci porta fuori dal sentiero che stavamo seguendo, per farci arrivare in un luogo che all'inizio non ci era stato promesso - non ci era stato detto.

6. Il modo più sottile, più difficile, più onesto di impiegare il non detto nella narrazione è però quello che potremmo chiamare doppio binario. In questo caso il senso apparente e quello più profondo di una storia procedono fin dall'inizio fianco a fianco, non c'è la spezzatura di una linea; uno dei due sensi non viene sacrificato all'altro, come quando un gregario "tira" la volata al capitano per poi farsi da parte. I due sensi coesistono. Ma alla fine uno dei due, senza cancellare l'altro, ci si impone come la ragione profonda della storia che ci è stata narrata.
In un racconto di Tiziano Scarpa, "L'annientatore" (pubblicato in Amore®, Einaudi 1998), fin dall'inizio ci viene presentato il contrasto tra un padre e un figlio. Il ragazzo, che racconta la storia in prima persona, studia all'università, è sciapo, mingherlino, curvo sui libri. Il padre, dispiaciuto per come il figlio trascura il proprio fisico, gli propone di fare insieme un po' di attrezzistica. Da questo momento quella che decolla è la storia stupefacente dei progressi fisici del genitore, che si appassiona al body building, trasforma il proprio corpo e la propria vita, cresce addirittura in statura oltre che nella massa muscolare, vince concorsi internazionali, diventa un colosso grottesco e inarrestabile, un monumento di carne gonfia, granitica, esuberante. Intanto il figlio continua a studiare, riceve telefonate dalla madre entusiasta, cerca inutilmente, quasi distrattamente, di riportare alla realtà non tanto il padre quanto i suoi fans. Lo si direbbe preoccupato, forse un po' invidioso, nulla di più. Una sera l'erculeo genitore è invitato in televisione, a un noto talk show. E qui, nel mezzo del racconto spettacolare e rutilante di questa metamorfosi, tra le immagini euforiche e favolose che ci hanno abbagliati, improvvisamente - come quando in un corridoio lontano si apre una porta e un alito di aria gelida ci sfiora - l'odio e il senso di morte compaiono, si rendono riconoscibili: sono sempre stati lì, sotto i nostri occhi, al fianco del padre che viveva la sua grande avventura, ma solo ora li vediamo bene, ora che "confuso fra il pubblico" ci dice il figlio "covavo in testa la frase che, ne ero sicuro, avrebbe annientato mio padre di fronte a dieci milioni di telespettatori." Non ci sarà nemmeno il tempo di dirla, quella frase: un malore stronca il padre all'improvviso, sul palco; il grande corpo pare sgonfiarsi; il cuore si ferma una settimana dopo, in ospedale. Così anche la frase annientatrice rimane non detta: lei che con la sua semplice esistenza ci ha rivelato all'improvviso il non detto che ci accompagnava dall'inizio del racconto, l'odio mascherato, il senso travisato.

7. Borges osserva che forse il fatto estetico sta nell'imminenza di una rivelazione che non si dà.
Poe, cent'anni prima, aveva dato del piacere che si ricava dall'ascolto di un brano musicale una definizione memorabile e stranamente simile: "Quando la musica ci commuove fino alle lacrime, noi non piangiamo per 'eccesso di piacere'; bensì a causa di un rammarico impaziente, insistente, perché sentiamo di non poter ancora banchettare con quelle estasi supreme delle quali la musica ci offre solo una suggestione fuggevole e indefinita".
Più semplicemente: l'assenza di un senso evidente, apparente, ci accompagna per tutta la vita. Il vero senso della nostra vita sta sempre altrove; per questo interroghiamo i volti impenetrabili o ingannevoli degli altri, per questo crediamo che loro sappiano ciò che noi non sappiamo, che siano complici di quello Scrittore di cui molti ci hanno parlato. Le donne interrogano gli uomini e gli uomini le donne, e l'amore è la regione della vita in cui ci si sente più vicini ad afferrare il senso mancante, ciò che della nostra esistenza rimane non detto. Più vicini, sì, ma mai abbastanza per poter davvero sapere. Forse anche a noi questo senso nascosto verrà svelato solo alla fine. Forse il nostro ultimo sguardo sarà illuminato da questa intuizione conclusiva, suprema, inutile, che non potremo in nessun modo comunicare agli altri. Se c'è qualcosa di vero in questo, allora la narrativa, che per suo statuto non può non essere realistica (indipendentemente dal fatto che possa produrre la creazione di mondi apparentemente irreali), sarà realistica - sarà al servizio della realtà e della verità - anche e soprattutto nel momento in cui nasconderà anch'essa il vero senso di ciò di cui vuole parlare.






3. Questo saggio breve sul genere noir uscì nella primavera del 1998 su «Effe», la bella rivista delle librerie Feltrinelli ora purtroppo defunta. Penso che contenga una messa a fuoco teorica di qualche interesse, anche se oggi sarei molto meno su di giri rispetto a come appaio qui, rispetto all’argomento trattato.

VEDO NOIR NEL MIO FUTURO
Da Sofocle a Ellroy. Breve viaggio alle radici del giallo e del thriller, e dei loro motivi profondi, destinati a decretare il trionfo del "cugino americano".

1. In principio era Edipo
Proviamo a dire qualcosa di originale sul rapporto fra l'Edipo Re e il romanzo giallo, impresa piuttosto ardua, oramai. Definire la tragedia di Sofocle come il primo giallo della storia è una sciocchezza, perché le dimensioni dell'Edipo sovrastano quelle di qualunque genere. È vero però che in quest'opera si trovano alcuni elementi-cardine di cui il romanzo giallo farà uso e abuso.
- La morte violenta: il vecchio re di Tebe, Laio, è stato ucciso.
- Il mistero: perché a Tebe, all'inizio del dramma, troviamo la peste?
- Il rapporto passato-presente: le radici del male di oggi affondano in qualcosa che è stato compiuto nel passato. - Testimonianze e indizi: il mistero della peste verrà risolto chiarendo un omicidio rimasto insoluto, quello appunto del precedente re di Tebe. Indizi e testimoni faranno da guide.
- La detection: l'investigatore (Edipo) dovrà ragionare sui fatti e cercare di ricostruire l'accaduto, scoprire (de-tegere) cosa è realmente successo.
Quello che di straordinario c'è nell'Edipo Re - oltre alla lingua, alla statura dei personaggi, insomma a tutto - è il modo in cui l'indagine ha termine. Il detective Edipo scopre alla fine di essere lui stesso il colpevole, e dunque il presunto primo giallo mai scritto gioca già con gli elementi del genere, infrangendo la regola che vuole separate la figura di chi cerca e quella di chi è ri-cercato. Ma, soprattutto, l'accanimento degli dei contro di lui risulta orribilmente immotivato. Edipo non ha compiuto consapevolmente nessun delitto, non poteva riconoscere suo padre quando l'ha ucciso, non poteva sapere che la splendida regina che ha sposato è sua madre. L'Edipo è una tragedia del non senso della vita, un'epopea del disordine (termine che ci verrà buono parlando del noir), un urlo che ci arriva dal cuore dell'età aurea dell'uomo, lo smagamento dell'illusione che il mondo e l'uomo e Dio siano in armonia.

2. Il Grande Padre: Edgar Allan Poe
Oltre due millenni più tardi, il vero big bang. Con I delitti della Rue Morgue (1841) Edgar Allan Poe, tra quinti genio e due quinti ciarlatano come disse di lui James Russell Lowell, scrive il primo poliziesco moderno, e aggiunge agli elementi già elencati una trovata destinata a diventare una delle pietre angolari del genere: la figura di un detective dilettante che riesce là dove la polizia ufficiale fallisce. Nei cinque racconti gialli di Poe viene tracciato il solco su cui tanti cammineranno, e come osservò Henry S. Canby "è una vera ironia che Poe abbia inventato la detective story, che consente a scrittori da quattro soldi di guadagnarsi il pane, e lui invece sia quasi morto di fame". In realtà Poe, essendo un genio, è troppo in anticipo sui tempi: il Romanticismo anglosassone apprezza gli aspetti gotici della sua scrittura, non la fede disperata nell'intelletto che Poe e il suo detective Dupin incarnano, il loro tentativo di ricondurre alla ragione quelle paure irrazionali che devastano altri eroi di altri racconti... e il loro stesso autore.
Nel decennio successivo alla morte del maestro, Émile Gaboriau (L'affare Lerouge, 1863) e Wilkie Collins (La pietra di luna, 1868) distendono le narrazioni fulminee dell'americano adattandole alla lunghezza e al respiro del romanzo; ma è solo con il ritorno al primato della Ragione e della sua ancella, la Tecnica, che il genere decolla, una ventina di anni più tardi.

3. Detective story e positivismo
L'esplosione della detective story come prodotto adatto a un consumo di massa è certamente dovuta a Conan Doyle e al suo personaggio, Sherlock Holmes. Conan Doyle semplifica le complessità della scrittura di Poe, ne appiattisce gli abissi. Con lui la semplice trama (mistero-soluzione) acquista sullo stile e sulle valenze artistico-letterarie un vantaggio che non verrà mai più colmato. In perfetta simultaneità, Conan Doyle e Freud (entrambi medici!) plasmano la grande utopia positivista, la rivincita del cervello sul cuore e sulle viscere. Giallo e psicanalisi descrivono un iter identico:
- Presupposto: nel mondo esiste un ordine, e la ragione umana èfatta apposta per riconoscerlo e comunicarlo.
- Il caso (poliziesco o clinico): rottura dell'ordine attraverso un trauma (omicidio, furto, infrazione di un tabù sessuale...).
- Gli elementi: ancora una volta testimonianze e indizi (la deposizione di un teste o la cenere della sigaretta per l'investigatore; i racconti del paziente, i suoi sogni, i suoi lapsus per lo psicanalista).
- Procedimento: ragionando su questi dati apparentemente insignificanti, investigatore e psicanalista ricostruiscono la scena del trauma iniziale, individuano il colpevole, ripristinano l'ordine. L'armonia fra uomo e mondo è salva.
Su questa via si instradano nel Novecento, con varia originalità, autori prevalentemente inglesi come, fra molti altri, Wallace, Austin Freeman (inventore del giallo inverso: sappiamo subito chi è l'assassino; così lavorerà anche Hitchcock), Chesterton, Agatha Christie, Van Dine (americano, ma più snob di un inglese snob), Dorothy Sayers, Ellery Queen (americano per nulla snob), John Dickson Carr, per arrivare agli anni '60 e alla proposizione della detective story in chiave moderna della James. Intanto, nelle Indie Occidentali...

4. Noir, Thriller, Hard boiled: bando alle chiacchiere
Negli anni '20, in reazione alle sofisticherie del giallo britannico, si sviluppa negli USA una scuola di scrittori interessati a una narrativa dura, aspramente realistica, la cui principale palestra è la rivista «Black Mask». Nel fatale 1929 Dashiell Hammett pubblica il suo primo romanzo, capostipite del genere, a cui seguiranno le opere di autori come Chandler, Cain, Chase, Woolrich, Spillane. A partire dal dopoguerra, la popolarità e le ramificazioni del noir finiscono per sopraffare quelle del giallo, e la qualità di alcuni autori e opere si innalza a livelli di assoluta dignità letteraria, come nel caso della Highsmith, di McBain alias Hunter, per arrivare agli anni Ottanta con Ellroy.
Oggi il noir è un genere ubiquo, un contenitore dalle molteplici definizioni in grado assai più del giallo tradizionale di accogliere autori diversissimi fra loro (Pennac, Vàsquez Montalbàn, Harris, la Cornwell), ma soprattutto capace di annettere senza forzature autori di generi diversi (si pensi a Philip Dick, il cui Cacciatore di Androidi, meglio noto come Blade Runner, vede per ironia il detective muoversi attraverso le macerie futuristiche della romantica Los Angeles di Philip Marlowe), e di attrarre l'interesse di scrittori "alti" seguiti da una critica raffinata che normalmente sdegnerebbe di cimentarsi con i noiristi vocazionali (Dürrenmatt, Borges, Sciascia, Ellis; ma perfino la Maraini di Voci e il Bevilacqua di Gialloparma hanno voluto «provare il brivido»... in tutti i sensi).

5. Noir contro giallo: il disordine del mondo
Qual è dunque lo statuto del noir, e quali sono le differenze sostanziali fra noir e giallo tradizionale? In realtà la morte violenta è l'unico elemento in comune fra entrambi i generi. Infatti il noir: - Presuppone non l'ordine ma il disordine del mondo. Il mondo ècaos, incrocio di linguaggi e magma di regole contraddittorie.
- All'interno di questo caos, il criminale (spesso il vero protagonista della narrazione, che può assumere il suo stesso punto di vista) cerca di imporre un ordine parziale, ossia elabora un piano: uccidere un uomo, compiere una rapina, ecc.

- Di norma, questo piano è destinato al fallimento.
Il collasso finale del criminale diventa metafora della nostra esistenza, del nostro tentativo continuo e frustrato di controllare una realtà sfuggente. La simpatia che proviamo per i grandi vilain dei noir è certamente lo sfogo proiettivo delle nostre pulsioni violente (loro uccidono per conto nostro) o dell'aspirazione a infrangere i limiti in cui sentiamo rinchiusa la nostra vita (la grande rapina alla banca nasce dallo stesso desiderio di un brusco salto di qualità che esprimiamo giocando al Totocalcio), ma sorge anche da una identificazione fra perdenti, dal riconoscimento che il loro scacco è anche il nostro. Personalmente sono convinto che questo sia il motivo per cui sempre più spesso, ultimamente, compaiono narrazioni noir nelle quali il cattivo non viene affatto punito, non fallisce. Il nostro anelito all'evasione da una realtà asfittica trova allora uno sfogo compiuto, coerente fino in fondo, e in particolare il serial killer si propone come l'eroe nero di fine millennio. L'autocensura, che provocherebbe in noi un ovvio senso di colpa se fossimo invitati a una identificazione diretta con un brutale assassino, viene elusa intelligentemente nel Silenzio degli innocenti, con uno sdoppiamento della figura del criminale: se l'incolto e sgraziato Buffalo Bill merita di essere castigato - e troveremmo immorale che un simile animale la facesse franca - il raffinato, enigmatico dottor Lecter, l'antropofago umanista, può trionfare senza che la cosa ci dispiaccia o ci spaventi.
Già la possibilità di presentare al lettore un protagonista che suggerisce un'identificazione profonda garantisce dunque al noir un vantaggio rispetto al giallo e ai suoi ripetitivi detectives. Ma la maggiore vitalità del genere nasce anche da importanti corollari del suo statuto di base:
- Se il giallo si svolge per eccellenza in un luogo circoscritto (l'enigma della camera chiusa ne è il massimo esempio), il noir ci trasporta dentro paesaggi mutevoli, dagli inferni metropolitani alle sterminate highways americane, dalla provincia agli spazi cosmici (e se 2001 fosse un noir?). In sintesi: nel giallo qualcuno apre una porta e entra; nel noir qualcuno apre una porta e esce.
- E uscendo, fra l'altro, viene in contatto con le più varie realtà umane, sotto il profilo non solo psicologico ma etnico, linguistico, sociologico (una delle definizioni più gustose del noir è "romanzo sociale con cadaveri"). Il noir è aperto a ogni sperimentazione linguistica (mentre il giallo tende a una lingua piatta e semplificata) ed è pronto a descrivere ambienti e situazioni di ogni tipo.
- Proprio in conseguenza di ciò, il noir tende e tenderà sempre più a una feconda contaminazione con altri generi.

6. Noir, noir, noir: perché non ce ne libereremo per un pezzo (forse)
C'è un buon paragone per descrivere l'essenza del noir e la ragione del suo fascino e della sua duttilità.
Nella musica contemporanea, non solo quella leggera ma anche quella colta, un elemento è diventato fondamentale: il ritmo. Quando l'ascoltatore è intrattenuto da una base ritmica gradevole, diventa possibile somministrargli non solo le melodie ultrasemplificate della musica da discoteca, ma anche sperimentazioni rumoristiche, divagazioni etniche, proposte di jazz avanzato, dissonanze postdodecafoniche. La parola chiave è tensione. Il ritmo genera tensione, tiene desto il tuo interesse, ti permette di andare avanti, di metabolizzare.
Il noir compie lo stesso miracolo. Il noir è anzitutto narrativa di tensione: l'assassinio compiuto nelle prime pagine, un'atmosfera minata, un personaggio inquietante... qualunque cosa il lettore trovi all'inizio del libro, se le regole del genere sono state rispettate essa diventerà la pulsione ritmica, danzante, che lo porterà fino in fondo, e che gli permetterà di assorbire qualsiasi messaggio sociale o esistenziale o politico, qualsiasi elaborazione di stile o di contenuto che senza quella tensione, senza quella scansione sapiente di arsi-tesi, domande- risposte, attesa-compimento, potrebbe sembrargli pesante o indigesta.
Certo, un grande scrittore è capace di sedurre il suo pubblico anche senza cadaveri. Certo, agli occhi di un mestierante della scrittura, per creare l'effetto "come andrà a finire?" le vicissitudini del sentimento e (un po' meno) quelle del sesso rimangono una seria alternativa a lame e lampi nel buio. Ma credo che una scommessa su un futuro sempre più noir, oltre che sempre più nero, non sia fuori luogo, oggi.






4. Nel 2002 ho avuto l’occasione di scrivere una serie di brevi pezzi di critica televisiva per il quotidiano online «Il Nuovo». Ne scelgo tre, tutti datati quanto a riferimenti (la televisione è quasi veloce come l’informatica, nel creare obsolescenza), ma che contengono osservazioni di carattere generale che ha ancora senso leggere, forse.

IL FASCINO ARCANO DEL QUIZ
(“Il nuovo” febbraio 2002)

Verso la fine di gennaio, di fronte al consolidarsi della tendenza del TG5 a superare negli ascolti lo storico TG1, giornalisti e responsabili del più antico e glorioso notiziario televisivo italiano hanno invocato come giustificazione il venir meno del traino di audience fornito da Quiz Show. In effetti la trasmissione di Amadeus era stata ingoiata in uno di quei baratri che si spalancano ogni tanto nei palinsesti, lasciando terreno libero a Gerry Scotti e al suo Passaparola, gregario perfetto nel tirare la volata a Mentana & C., primo anello di una breve catena spigliata e trascinante: Passaparola, TG5, Striscia la notizia. Credo che in parecchi si siano messi le mani nei capelli leggendo di telegiornalisti Rai che protestavano queruli, e chiedevano dove fosse finito Amadeus promuovendo addirittura indagini sulla sua posizione contrattuale. La battaglia dell’informazione televisiva combattuta non sul terreno della qualità delle notizie, ma su quello dell’effetto traino del programma che sta prima del TG!
In realtà, nessuna migliore consacrazione si sarebbe potuta immaginare per il grande ritorno del telequiz. Questo genere incastonato nella storia della TV, elevato a ragione da Eco nel celebre saggio “Fenomenologia di Mike Bongiorno” a paradigma stesso del modus operandi della comunicazione televisiva, conosce oggi una fortuna senza precedenti. Lo abbiamo visto riproposto dal suo santo patrono Mike nella piacevole formula da dopopranzo della Ruota della fortuna, amplificato a vero e proprio varietà da Gerri Scotti non solo con Passaparola ma anche con il serale Chi vuol esser milionario, raggelato da La7 nella formula interessante (e, alla lunga, perdente) di 100%, il quiz “puro” dalle domande difficilissime che sdegna balletti e tettone e fa a meno perfino della presenza fisica del conduttore.
Ma dove risiede il fascino del quiz? Della sua funzione di distributore di nozionismo in pillole si è detto molto, così come della sua importanza storica nel rendere universale un certo modello culturale. Il nocciolo della questione, però sta altrove. Il quiz, versione televisiva della “Settimana enigmistica”, è parente stretto del giallo (in forma di romanzo o di film e telefilm) e assolve una funzione di rassicurazione che con la cultura e le sue parodie c’entra poco.
Il meccanismo di domanda-risposta, enigma-soluzione – che il giallo mette in scena in forma narrativa e il quiz scompone nel suo aspetto scolastico – ci conferma nell’esistenza di un ordine, di una logica nel mondo: in fondo a tutto, di un lieto fine garantito. L’assassino e l’ignorante vengono smascherati, chi sa viene premiato. Ogni quesito ha una risposta esatta, una sola.
Sommersi nel magma del nostro quotidiano, costretti ogni giorno a combattere con il disordine e l’irrazionalità di un universo che l’accelerazione tecnologica spoglia sempre più in fretta di punti di riferimento, vediamo distendersi nelle trame del giallo e nel semplice gioco giusto/sbagliato del quiz una geometria pacificata, rilassante, che ci riconcilia con il nucleo più infantile della nostra personalità e della nostra storia, facendoci affondare dolcemente in quel passato remoto in cui eravamo convinti che la vita ci avrebbe messo davanti un cammino logico, preordinato, senza sorprese. Che il mondo fosse stato costruito per noi, fosse a nostra disposizione, a patto di avere studiato e saper dare le risposte giuste alle sue domande.


NON TORTURATE I ROBOT
(“Il nuovo”, febbraio 2002)

Robot Wars – La guerra dei robot va in onda su La 7 ogni domenica, alle 13,30. Programma di importazione americana, mostra combattimenti fra robot costruiti da dilettanti: piccoli mostri semoventi, corazzati e attrezzati per aggredire l’avversario colpendolo, punzonandolo, rovesciandolo e così via. E’ interessante notare che quest’idea in sé non contiene particolare violenza: il ricordo corre piuttosto a certe atmosfere disneyane, Paperino e Paperone che si affrontano con ordigni elettromeccanici creati da Archimede. Ogni match è preceduto da interviste ai costruttori dei robot. Qui si aprono scenari familiari affascinanti, perché i costruttori (solitamente due o tre) sono spesso padre e figli, oppure fratelli, amici, quasi mai due coniugi. Gli intervistati illustrano le qualità del loro mostriciattolo, lo carezzano, ne vantano con affetto la capacità distruttiva, parlano ammirati e preoccupati dell’avversario che dovranno affrontare.
Poi il match comincia. In un’arena contornata dal pubblico e vigilata da un’apposita security composta da “house robots”, i contendenti si attaccano. La regia inquadra alternativamente i robot in lotta e i loro costruttori che li telecomandano, e la cronaca dell’evento è affidata ad Andrea Lucchetta, ex pallavolista popolarissimo presso il pubblico giovane.
I combattimenti, bisogna dirlo, sono a volte davvero appassionanti. Ordigni spaventosi che parevano imbattibili possono venire messi in crisi da robottini progettati intorno a una sola (ma diabolica!) arma di offesa; in ogni caso, gli espedienti messi in atto per superare l’avversario sono spesso ingegnosi e divertenti. L’imprevisto, almeno per lo spettatore sprovveduto, arriva alla fine del match, quando un contendente viene messo in inferiorità. Chi si aspettava una continuazione dell’atmosfera leale delle interviste, chi immaginava pietà per lo sconfitto, solidarietà fra i piccoli geni che hanno progettato le macchine, è destinato a rimanere deluso; chi fantasticava magari che la metafora dell’arena si sarebbe estesa fino a chiedere al pubblico di alzare o abbassare il pollice per decretare il destino del perdente si accorge di aver sbagliato indirizzo.
Perché gli house robots si avventano sull’automa in crisi e lo fanno a pezzi. Lentamente, con gusto, fra le urla eccitate del pubblico. Lo colpiscono con mazze meccaniche, con lame rotanti; lo spingono ad arrostire dentro pozzi da cui erompono fiamme; lo prendono in mezzo fra due o tre, massacrandolo; lo scaraventano fuori dall’arena. La durata della punizione è molto superiore a quella del match, come per sottolineare che l’interesse degli spettatori dev’essere concentrato lì, nella lenta e sadica distruzione che avviene sotto gli occhi disperati dei costruttori. Né la convenzione di Ginevra né alcun elementare codice sportivo valgono per i robot sconfitti, che non vengono nemmeno “terminati” in fretta come nei film di fantascienza, ma seviziati a morte.
Di fronte a questa catastrofe pedagogica della domenica pomeriggio, il primo impulso è sentirsi cretini per aver dato un ceffone a nostro figlio sorpreso a prendere a colpi di spillo una lucertola; poi si pensa a cosa accadrebbe se al posto dei robot ci fossero degli uomini. Mi correggo: a cosa accade ed è sempre accaduto quando al posto dei robot ci sono stati degli uomini.


SIPARIO SUL TG
(“Il nuovo”, gennaio 2003)

La trasformazione dei notiziari televisivi è uno dei fenomeni più vistosi degli ultimi anni. Non più protetti dall’aura sacrale che circondava i vecchi TG della Raitivù (quei notiziari della sera, che riunivano genitori e figli intorno alla tavola imbandita…) i telegiornali combattono oggi la battaglia dell’audience su più terreni. In teoria quello dell’informazione mantiene una sua rilevanza, e un anno fa se n’è dovuto accorgere Marco Giordano: ereditato Studio Aperto da un giornalista ortodosso come Paolo Liguori, ha tentato di farne una specie di videoclip allineato all’immagine “giovane” di Italia Uno, in cui la notizia sprofondava sotto una slavina di effetti speciali, ma è stato ben presto costretto a tornare a modalità di comunicazione più classiche.
Il problema di come porgere l’informazione in modo coinvolgente è stato in genere risolto nella forma più ovvia, ossia aumentando il sex appeal dei mezzibusti. La sfrontatezza di Lilli Gruber (nel senso proprio del termine: la sua ricerca di un approccio allo spettatore non più “frontale” ma obliquo), consacrata nei nudi estivi rubati dai fotoreporter una decina di anni fa, ha fatto da traino a una carovana di volti e corpi che hanno affollato l’harem immaginario del telespettatore scacciandone inquiline tradizionali come le annunciatrici, con l’unica eccezione di Emanuela Folliero di Rete4. Il TG è diventato un supermercato di seduzione, fondato sullo stesso principio per cui la hostess e la commessa dei grandi magazzini attizzano più delle pornostar: perché il loro mestiere dichiarato non è quello di vendere sesso.
Dal punto di vista di molti telegiornalisti (non tutti, certo!) la trasformazione è stata forse perfino più radicale che per gli spettatori. Il TG non è più un punto di arrivo, ma un trampolino di lancio verso altre avventure in video, sempre più slegate dalle esigenze dell’informazione e tendenti di preferenza all’entertainment. In sostanza questi giornalisti finiscono per fare i conduttori/presentatori di talk show e affini, cioè assumono un ruolo in cui la loro specifica professionalità non conta un bel niente di fronte a un aspetto piacevole e a una minima disinvoltura di eloquio, doti classiche del cabarettista. Interessante notare che i maschi sono stati i più precoci nell’annusare il vento nuovo: basta fare nomi come Michele Cucuzza, Tiberio Timperi… ma chi ricorda che Alberto Castagna era un giornalista del TG2?
La rimonta del gentil sesso non si è ovviamente fatta attendere. Dopo Elena Guarnieri approdata a “Miracoli” e Roberta Cardarelli che fra le nefandezze di “Exxxtreme” non rinuncia a sbarrare gli occhi considerandola una pratica seduttiva, la parabola rapidissima di Francesca Senette merita una citazione speciale. Prediletta da Emilio Fede, dopo il consueto tirocinio da starlette a trasmissioni come “Quelli che il calcio” Francesca non ha abbandonato il TG4: seduta, espressione ieratica e occhi in macchina, con Fede in piedi che le tiene una mano su una spalla, è un’icona della futura resa dell’informazione, della disfatta che il sesso (sbarazzino, tragico, sussurrato, alluso, ma insomma sempre lui) si prepara a infliggere alla notizia, a un’informazione ridotta al ruolo di mezzana. Non a caso, a seguire dopo il TG, ritroviamo la Senette nelle pose più stravaganti fra i fondali stile MTV del rotocalco di vippaggine assortita “Sipario”. Un titolo che ha il sapore di un epitaffio.






5. Insieme a Scarpa, Aldo Nove è stato l’autore con cui ho condiviso più cose, benché sia quasi impossibile trovare due stili più dissimili dai nostri. Ho scritto un libro insieme a lui e ho un amore sconfinato per la sua produzione poetica recente. Questo pezzo mi era stato commissionato nel 2003 dalla rivista no profit «Vita», ed è un esempio di recensione anomala.

ALDO NOVE: L’IO MINUSCOLO

Madre di Dio

Madre di Clivio e di Gerusalemme,
Madre di Betsebea e Baranzate,
Madre delle Bustecche e di Betlemme,
Madre del Monte Nero e di Malnate;

Madre del Crocifisso e della strada
Che va dal tabaccaio a Primaticcio.
Dove alle sei la sera si dirada
Al primato di nuvole rossiccio,

Al primato del cielo che si slaccia
Dal cielo tra le nuvole di mille
Colori ombreggiando della tua faccia

Tra i gas del camion gli occhi, la scintilla
Degli occhi tuoi, Madre, prima che taccia
La sera madre abbracciami...

(da Aldo Nove, Fuoco su Babilonia! Poesie 1984-1996, Crocetti 2003, pp. 123-24).

Aldo Nove si chiama Antonello Centanin, ed è un mio amico. Non è facile essere obbiettivi parlando di un amico, ma io ci proverò.
Fuoco su Babilonia è una bellissima antologia delle sue poesie scritte con il nome vero, le poesie scritte prima di diventare famoso come Aldo Nove. Con questo nome d’arte, invece, Antonello ha pubblicato una raccolta di covers poetiche con Tiziano Scarpa e con me, Nelle galassie oggi come oggi, e, prima, tre libri in prosa molto importanti: Puerto Plata Market, Superwoobinda e Amore mio infinito. Tutti con Einaudi. Sono libri che contengono intensità, dolore, umorismo, un’esplorazione lancinante del mondo contemporaneo (dominato dai media e da un’imbecillità diffusa e straziante) e un attacco frontale alle convenzioni della prosa narrativa italiana. Forse ci voleva un poeta, per sovvertire la prosa italiana. Aldo Nove scrive in prosa come un jazzista: i lettori superficiali o ignoranti aprono una pagina a caso e dicono che scrive sgrammaticato, invece lui scrive come i grandi jazzisti suonano, cioè varia continuamente gli attacchi, i modi, l’impostazione delle frasi. La sintassi, insomma. In una pagina di Aldo Nove trovi dieci modi diversi di attaccare e girare e concludere una frase. Nel medio romanzo in prosa di un medio (a volte anche buono) narratore italiano, se ne trovi cinque ti va ancora bene. Mah, allora chissà come sarà difficile da leggere, questo Aldo Nove, penserà qualcuno. Macché: di solito gli rimproverano di essere troppo facile!
Uno scrittore troppo facile da leggere: è come rimproverare a una ragazza di essere troppo bella. E’ chiaro che la bellezza può anche provocare danni (e invidie...), ma qualunque persona sana di mente la considera anzitutto un dono.
La verità è che Aldo Nove è l’alfiere di una generazione di autori che hanno scelto di fare loro tutto il lavoro, di faticare per il lettore, di tenere nascoste le strategie, le tramature della scrittura, tutto quello che molti scrittori precedenti esibivano in forma di linguaggio “alto”, di solennità paludata, con il risultato di perdere completamente la presa sul mondo che girava e cambiava intorno al loro naso. Gli scrittori come Aldo Nove lavorano, e lavorano molto. Però vogliono che il lettore goda. Oddio: che si spaventi, che si emozioni, che pensi, che dopo aver chiuso il libro veda il mondo con occhi diversi. Ma, in ogni caso, non con occhi assonnati dalla noia o coperti dal velo della falsità, dalla cataratta di una visione edulcorata della vita e dell’arte. Quindi: lo scrittore lavora; il lettore gode della verità profonda di questo lavoro, senza sorbirsi le imposizioni terroristiche di un linguaggio che, come quello della prosa tradizionale, gli dica: stai lì al tuo posto, in ginocchio, lettore, e impara!
Tutte le caratteristiche dell’Aldo Nove prosatore si trovano nel poeta, e viceversa.
Aldo Nove è lo scrittore più “collettivo” che io conosca. Il più capace di far sentire nelle sue cose, al tempo stesso, per miracolo artistico, le voci distinte dell’Io e degli Altri.
La pagina di Aldo Nove è inconfondibile, le sue idiosincrasie subito riconoscibili, e così le sue citazioni dal mondo delle merci, della plastica, dell’inautentico che riempie le nostre vite; eppure nelle sue parole si muove sempre un sentimento che è di tutti. Mi correggo: non di tutti, il che sarebbe solo generico. E’ la voce e il sentimento di tutti i poveri, i vinti, i coatti, i costretti, quelli che credono di avere capito e non hanno capito niente, quelli che credono di avere ragione e la vita gli dà torto. E quindi forse, dico forse, davvero di tutti noi, ma non semplicemente come uomini in astratto: no, come uomini qui e ora.
Ora potete rileggere Madre di Dio.
Vedete i luoghi evangelici mescolarsi alla Brianza, la tentazione di un sublime di cielo e di ombra affogare nei gas di scarico di un camion. E sentite l’invocazione, il canto degli endecasillabi che collassano nell’ultimo, monco, incompleto per essere ancora più pieno, più memorabile.
E’ una poesia religiosa? Non lo so. E’ una profonda, dolcissima umiliazione dell’Io. L’Io del poeta è un Io laico, corrosivo, aspro, come si scopre da tutta la sua produzione, e come si nota nelle prime due strofe della poesia, nell’ironia sottintesa a quegli accostamenti. Ma nel momento dell’abbandono, della resa, in quell’ora – le sei della sera – che non ha niente di magico ma è banalmente l’ora in cui si esce dagli uffici, e si sale sulle auto e sui treni per tornare a casa, l’Io del poeta si fa da parte. Umilmente, senza ingombrare la fantasia con i propri miti e i propri aneliti, si scioglie in preghiera alla Madre con la emme maiuscola, alla madre con la emme minuscola, al tepore del Supermito, la stella fissa a cui guardano, incolonnati, stanchi, i milioni diretti alle consolazioni e alle miserie del dopocena davanti alla tv.






6. Una piccola cosa che mi è molto cara: un ricordo di Giuseppe Pontiggia pubblicato sul blog Nazione Indiana il giorno dopo la sua morte, il 27 giugno 2003. Non aggiungo altro perché è tutto spiegato qui dentro.

Oggi è morto Giuseppe Pontiggia. Io voglio, anzi devo dire una cosa su di lui. Per due terzi vi sembrerà una stronzata; il terzo finale forse vale la lettura di quello che lo precede.
Nel '91 Pontiggia ha letto i miei primi racconti. Era consulente dell'Adelphi. Lui e Luciano Foa sostennero la loro pubblicabilità, ma Calasso non era d'accordo. Lo stesso avvenne poco tempo dopo con un romanzo. Pace. La lettura della scheda che Pontiggia aveva preparato per il romanzo, fattami al telefono dal vecchio Foa nell'autunno del '92, fu decisiva per aiutarmi a capire quello che potevo o non potevo chiedere alla mia scrittura, e dare un indirizzo a tutto il lavoro futuro.
Da allora Pontiggia ha letto tutto quello che pubblicavo, mandandomi sempre un breve biglietto di incoraggiamento (mai generico, sempre puntuale, preciso, con un complimento esplicitato e tante critiche lasciate implicite ma sempre chiarissime per absentiam). Mi ha sempre mandato i suoi libri, con una dedica amabile. Nel '98 ha portato la mia raccolta di racconti "Un bacio al mondo" in finale al Premio Bergamo. Insomma, è stato in tutto e per tutto un punto di riferimento, una presenza gentile, costante, che da oggi, dopo 12 anni, mi mancherà.
Fin qui niente di strano, no? Abbiamo avuto tutti i nostri piccoli e grandi santi patroni o fratelli maggiori.
Però una cosa strana c'è.
Io e Pontiggia non ci siamo mai incontrati di persona. Mai.
Abitiamo a Milano, a una distanza di circa 3 chilometri in linea d'aria, ma in 12 anni non ci siamo mai nemmeno scambiati una stretta di mano, mai visti neppure da lontano.
Questo secondo me rende straordinario e preziosissimo quello che lui ha fatto per me. Non amicizia o complicità nata a tavola, magnando e bevendo e ciacolando di conoscenze comuni, non crassa e umidiccia solidarietà da scambi di favori come un sacco di gente che conosco io e che conoscete voi, e nemmeno semplicemente la legittima simpatia di pelle, l'annusamento reciproco, il guizzo di sguardi che si incrociano, la risata condivisa.
Solo la purezza strabiliante di questo raggio benevolo, distante, fatto di pura stima. Molto milanese, verrebbe da dire, se l'aggettivo non fosse così sputtanato.






7. Questo testo piuttosto articolato mi è stato chiesto nel 2004 dal giovane editore Leonardo Pelo (ex Addictions, ora No Reply) per comparire insieme ad altri contributi in una monografia dedicata al rapporto fra letteratura e musica. L’ultima parte è il racconto della genesi del progetto Covers. Noto con preoccupazione questa tendenza a scrivere sempre per punti, qui addirittura con sottopunti, come in un saggio universitario. Pazienza.

ZOOM
Cinque punti su musica e scrittura

1. Marziale, nel primo secolo dopo Cristo, si lamentava perché di notte nelle strade di Roma c’era un tale casino che non si riusciva a dormire. Ci ho messo un po’ di tempo a capire cosa mi colpiva tanto di questa affermazione. Si tratta del fatto che in questo fracasso variegato mancava quello che oggi sarebbe l’elemento casinogeno numero uno: la musica. Musica dagli altoparlanti delle automobili, musica dalle televisioni o dagli impianti stereo dei vicini.
Cosa disturbava Marziale? Grida, sghignazzi, lo stridere delle ruote dei carri. Niente musica. Non i bassi della techno o le litanie dei cantautori.
Il mondo ha fatto a meno della musica per secoli e millenni; non perché la musica non esistesse: è sempre stata registrata fra le arti maggiori, dai Greci in giù. Semplicemente, perché non entrava nel quotidiano degli uomini come ci entra ora.
Personalmente tengo acceso l’impianto hifi tutto il giorno, quando sono in casa; ma anche se non lo facessi subirei un’esposizione involontaria alla musica. La sentirei filtrare attraverso le pareti e le finestre del mio appartamento. Mi verrebbe incontro dallo schermo del televisore e dalla radio, anche se deliberatamente andassi alla ricerca di programmi che della musica dovrebbero fare a meno. I notiziari, poniamo. Niente da fare: sigle e colonne sonore dei servizi mi assedierebbero. E non parliamo di quello che accadrebbe una volta messo il piede fuori di casa.
Al tempo di Marziale non era così. Ai tempi di Leonardo da Vinci, di Carlo Magno, di Cervantes, non era così. Gli altri due poli artistici della triade classica, letteratura e pittura-scultura-architettura, erano profondamente innervati nella vita di qualunque persona avesse uno status intellettuale anche minimo. Tenevi in casa libri, quadri, anfore dipinte, oggetti anche umili che riflettevano sempre una determinata concezione dell’arte visiva.
Oppure uscivi e camminavi sotto le arcate di un portico, entravi in un tempio o in una chiesa.
La musica taceva, erompendo solo a tratti, in occasioni speciali: il canto di un artista da strada, o al contrario le liturgie di massa, le solennità religiose, gli spettacoli. Raramente da sola, offerta al puro godimento dell’orecchio; più spesso come accompagnatrice. Poco frequentata, poco sviluppata come modalità espressiva autonoma, poco citata dalle arti sorelle, la musica taceva, aspettando la propria grande rivincita.

Esagero, lo so, ma non troppo. 2. Fino alle ultime decadi del Settecento, la pittura era il paradigma dell’azione artistica. La forza d’impatto della visualità, la sua simultaneità, la sua fruibilità universale, la sua ricchezza di informazioni da abbracciare con un solo colpo d’occhio, la perfezione nella mimesi della natura, tutto questo era considerato un esempio e un modello per ogni forma d’arte. Il motto oraziano ut pictura poesis rimase fino al neoclassicismo (incluso, naturalmente!) la pietra angolare di questa concezione, nella quale la capacità descrittiva, la chiarezza, l’abilità nell’imitazione di una natura colta nel suo realismo di dettaglio (o invece sublimata e idealizzata) stavano al culmine.
Poi succedono tre cose.
La prima è la pubblicazione di un’opera teorica di Gotthold Ephraim Lessing, Laocoonte o sui confini della pittura e della poesia (1776), destinata a generare un grande dibattito e a provocare una prima ampia modificazione di prospettiva. Lessing, analizzando il famoso gruppo statuario del Laocoonte, dimostra che i mezzi propri della pittura e della poesia (o epica, o drammaturgia, o narrativa) sono profondamente diversi; inoltre proprio in questo testo fanno capolino espressioni come “pittura musicale” (in riferimento non a un quadro ma a un’opera letteraria: l’Ode in Honour of St. Cecilia’s Day di Dryden) e “pitture progressive” (sul Paradise Lost di Milton, per voler sottolineare il dinamismo a cui la narrativa, in prosa o in versi, è votata), che preparano il campo a quello che seguirà.
La seconda cosa è l’attacco frontale all’estetica classica e neoclassica da parte dei preromantici. Tutta l’impalcatura teorica della razionalità, della compostezza, del decoro nell’espressione letteraria, che non solo aveva plasmato duemilatrecento anni di scrittura, ma si trovava sorprendentemente ancora al centro del credo estetico di spiriti liberi ed errabondi come Voltaire, salta sotto la furia devastatrice dell’emozionale. L’identificazione fra poesia ed emozione, lo spalancarsi delle porte della soggettività, della vibrazione simpatetica, è in perfetta sincronia con i capolavori musicali che nel frattempo cominciano a venire sempre più spesso e sempre più liberamente, laicamente, ascoltati nelle sale da concerto e nelle grandi occasioni pubbliche e private.
In terzo luogo, l’affacciarsi del romanzo e la sua graduale presa di potere come forma standard dell’espressione in prosa sposta l’attenzione, per la prima volta dopo le discussioni sulla Poetica di Aristotele, dalla teoria del dettaglio, della singola immagine, alla considerazione della struttura organica di opere narrative di taglio ampio. Elementi come l’armonia generale, la ricorsività dei temi, l’alternarsi di intreccio principale e subalterno, la disposizione delle parti lungo l’asse diacronico, non possono trovare termini di confronto più efficaci e metaforicamente incisivi di quelli offerti dalla musica nelle sue forme lunghe sempre più perfezionate: la sinfonia e il quartetto.
Pochi decenni sovvertono molti secoli di teoria estetica, e l’Ottocento si trova interamente dominato dall’idea che la musica rappresenti il perfetto ideale di composizione e di impatto emozionale a cui qualunque arte dovrebbe aspirare. Il Novecento, pure.

3. Avevo poco più di vent’anni quando mi sono accorto che tutti i racconti che scrivevo seguivano uno schema identico. Si partiva con una storia o un personaggio, e a un certo punto la linea narrativa subiva una spezzatura, si apriva un punto di fuga, per cui un elemento apparentemente secondario della vicenda diventava predominante. Il lettore aveva creduto di camminare verso occidente e si ritrovava diretto a sud, come lo spettatore di Psycho, il capolavoro di Alfred Hitchcock: fino a quasi metà film siamo convinti di assistere alla storia di una ladra per caso, mentre dalla scena della doccia in avanti scopriamo che, senza ancora saperlo, stavamo guardando la storia di un assassino psicopatico.
Entusiasta dell’osservazione che avevo fatto e ubriaco di musica classica com’ero allora, come lo erano molti miei compagni di viaggio e com’era tipico in generale di chi si era appena emancipato dall’arcipelago rock-pop, ho pensato di raccogliere una ventina di questi racconti in un libro e di intitolarlo L’arte della fuga. Esiste ancora, da qualche parte, uno scartafaccio con quel titolo in prima pagina. Ero soddisfatto e orgoglioso della mia trovata.
Poi ho scoperto che L’arte della fuga era il titolo di un libro di Giuseppe Pontiggia, di un libro di Angelo Maria Ripellino e di almeno altri quattro o cinque autori recenti, per non voler andare troppo indietro. Insomma, che un’opera di musica strumentale del Settecento aveva influenzato così profondamente dei letterati, da spingerli ad adottare quel titolo senza nemmeno preoccuparsi eccessivamente del fatto che fosse già stato adoperato.
Incuriosito, ho fatto una piccola ricerca fra i titoli letterari, e le Sinfonie, i Quartetti, le Musiche da Camera, le Rapsodie, i Canoni, le Sonate sono venuti giù come pioggia. Un altro segno (il primo per me, allora) dell’influenza pervasiva della musica sulla letteratura: talmente pervasiva da infilarsi non solo nelle strutture profonde della composizione ma anche nell’elemento più superficiale (ma più programmatico) di un testo: il suo titolo.
Ah, per i miei racconti, ho lasciato perdere. Quando sono usciti in raccolta, più di dieci anni dopo, li ho chiamati in un altro modo.

4. Uno spirito autenticamente aristotelico potrebbe ora enumerare e analizzare le varie modalità di interazione fra musica e letteratura. Per esempio, si potrebbero prendere in considerazione:
4.1 Testi letterari (romanzi, racconti, poesie) che hanno il titolo di opere musicali o di forme musicali, come già visto.
4.2 Testi letterari che hanno come protagonisti figure di musicisti, realmente esistiti o di pura invenzione.
4.3 Testi letterari ispirati a opere musicali o a personaggi di opere musicali, con riferimenti diretti o metaforici, come la Sonata a Kreuzer di Tolstoj o il Tristano di Thomas Mann.
4.4 Testi letterari scritti da musicisti, incluso o escluso il genere dell’autobiografia.
4.5 Testi letterari esplicitamente strutturati come forme musicali, quali sinfonie o simili, con una ripartizione in Movimenti ecc.
4.6 Testi letterari esplicitamente strutturati in relazione a supporti musicali come il disco in vinile, quindi dotati di un lato A e B, o altre distinzioni simili.
4.7 Testi letterari che portino nell’apparato pretestuale o postestuale (eventualmente anche nella forma di audiocassetta o cd accluso) il riferimento preciso a titoli o autori di opere musicali dalla classica al jazz al rock, indicati vuoi come fonte di ispirazione vuoi come colonna sonora tenuta durante la scrittura o suggerita per chi legge.
4.8 La presenza più o meno densa e più o meno esplicita di citazioni di opere musicali di varia estrazione e genere all’interno di testi letterari: canzoni, brani sinfonici, pezzi jazz e così via.
4.9 L’adozione dichiarata di una sintassi o di altri procedimenti compositivi ispirati a un genere musicale, come per esempio il jazz-writing (o più precisamente be-bop writing) di Jack Kerouac.
Non essendo un spirito aristotelico, mi sembra che i nove punti enumerati finora siano sufficienti per un gioco di società, che potrebbe consistere nell’attribuire il maggior numero possibile di titoli di romanzi, racconti e poesie a ciascuno dei punti stessi.
Per quanto riguarda me, sono molto intrigato da alcuni considerazioni che girano più o meno intorno al capo 4.7, e in particolare all’influenza che la musica ha nella vita dello scrittore e nella scrittura stessa.
Che musica si ascolta quando si scrive? Come la si ascolta, e in quali momenti? In che modo e misura la musica influenza l’atto della scrittura?
Il già lodato Giuseppe Pontiggia, oltre a scrivere L’arte della fuga, ci ha lasciato nella sua qualità di nume tutelare del creative writing italico una annotazione di estremo interesse. Ai suoi allievi dei corsi di scrittura creativa, sconsigliava di ascoltare musica mentre si scrive, poiché la musica “ci fa sembrare più belle” le cose che mettiamo sulla pagina.
Difficile non essere d’accordo! I primi maestri russi del cinema sonoro avevano notato che la stessa inquadratura, per esempio il primo piano di un viso, cambiava completamente senso e impatto emotivo a seconda della musica che si adoperava come colonna sonora: l’immagine poteva diventare di volta in volta minacciosa, invitante, attraente, ripugnante, allegra, deprimente, allusiva, totalmente idiota. Ora, partendo dal presupposto che la musica che adoperiamo come supporto alla scrittura sia di solito, alle nostre orecchie, perlomeno piacevole, in certi casi perfino euforizzante, è facile immaginare che le nostre parole, scritte e rilette sotto l’influsso di questa musica, si caricheranno delle sue vibrazioni positive e ci sembreranno efficaci, evocative, emozionanti, travolgenti. Purtroppo il pubblico non avrà la stessa colonna sonora nell’atto della lettura del testo, e anche se l’avesse probabilmente essa non gli darebbe le stesse sensazioni che dà a noi. Perciò, a volte, l’effetto che noi crediamo di avere ottenuto con le parole sarà invece banalmente l’effetto del combinato parole + musica.
Nella mia pratica personale dell’insegnamento di creative writing ho adottato il suggerimento di Pontiggia modificandolo leggermente. Esistono nell’atto della scrittura due componenti ben distinte: una fase propulsiva, creativa, che porta alla prima e decisiva stesura del testo; e una seconda (o più: terza, quarta...) fase di rilettura e revisione del testo medesimo, che porta al suo perfezionamento, all’eliminazione degli errori, alla sua corretta valutazione e messa a punto. Nella fase numero uno, secondo me, qualsiasi mezzo serva a liberare energia, a scatenare la forza dionisiaca che sta dietro qualunque scrittura, anche la più compassata, è lecito.
Nelle sue Memorie, il grande librettista Da Ponte (guarda caso: uno scrittore al servizio della musica!) racconta che gli capitò in un certo periodo di dover scrivere fino a tre libretti contemporaneamente, per gente del calibro di Mozart e Salieri. Da Ponte racconta di aver lavorato in una stanza nuda e semplice, appoggiato a un tavolo sopra il quale erano posati una bottiglia di vino con un bicchiere, una tabacchiera e un campanellino. Da Ponte scriveva, scriveva. Ogni tanto beveva un bicchiere di vino. Ogni tanto pizzicava fra le dita una presa di tabacco. Scriveva, scriveva, scriveva. Ogni tanto suonava il campanellino, e una ragazza apriva la porta della stanza e si intratteneva con lui. Poi tornava di là, a dormire i suoi sonni innocenti. E intanto Da Ponte scriveva, scriveva, scriveva...
Da Ponte evoca i classici piaceri di Bacco, tabacco e Venere; noi siamo abituati a pensare, oltre a questi, ad allucinogeni o eccitanti, LSD, cocaina. Ma la musica basta e avanza!
Ascolta la musica che vuoi, mentre butti giù la prima stesura dell’idea creativa che ti ha tormentato: balla, batti la testa e i piedi al ritmo, respira con la musica mentre scrivi. Poi, quando arriverà il momento della revisione, quando la testa dovrà essere sgombra e il giudizio affilato, spegni lo stereo e ascolta in silenzio la musica nuda delle tue parole, se ne hanno.

5. Un’esperienza nuova E’ il 26 maggio del 2000, un venerdì pomeriggio. Tiziano Scarpa e io siamo al supermercato. Non è un omaggio alla teoria dei nonluoghi o ai libri del nostro amico Antonello Centanin alias Aldo Nove: siamo semplicemente al supermercato per prendere qualcosa da mangiare, ciascuno per la sua casa e secondo i propri gusti. Di qui a una settimana, il 2 giugno, dobbiamo andare al MusicArt Festival di Brescia; uno degli organizzatori, Omar Pedrini dei Timoria, ci ha invitati proprio insieme ad Aldo Nove, per una serata di letture.
Mentre Tiziano sta cercando non so cosa, quasi infilato dentro uno scaffale bassissimo, io contemplo distratto un perfetto esemplare di ragazza wasp, che gira fra i corridoi temporaneamente orfana o vedova di Richard Gere, e gli dico:
“Senti, io vorrei fare una cosa un po’ diversa, a Brescia.”
“Cosa?”
“Sì, ecco...” Non so perché, mi sento imbarazzato. “In questi giorni c’è una canzone che mi ossessiona. E’ un pezzo dei Deutsch-Amerikanische Freundschaft, musica dance elettronica di vent’anni fa. Si intitola Alles ist gut. Questo pezzo mi mette addosso una sensazione che non saprei dirti, è così potente, ha dentro un’inquietudine, una disperazione, un senso di morte...”
“Ho capito” mi ferma Tiziano, riemergendo dallo scaffale. Conosce le cose che mi piacciono, ci è rassegnato.
“Insomma, una di queste sere ho fatto una traduzione del testo della canzone. Una traduzione libera, naturalmente. Mi è venuta questa idea: noi a Brescia leggeremo pezzi di nostri racconti, giusto? Se io a un certo punto... dico a un certo punto, non dall’inizio... metto sul palco un radioregistratore, faccio andare a tutto volume Alles ist gut e ci recito sopra la mia traduzione, vi scoccia?”
“Perché dovrebbe scocciarci?”
“Voglio dire, vi sembrerà di essere sul palco insieme a un cretino?”
“No, no, figurati” mi rassicura lui, ridacchiando.
Quella notte, mentre io dormo, Tiziano mi scrive tre mail. Le leggo il mattino dopo, e vedo che sono state spedite fra le 23 e le 23,30. In sostanza, Tiziano mi dice: Diavolo, che idea! Che bella idea! Ma perché limitarti a tradurre? Perché limitarci a tradurre? Perché non partire dallo spunto emotivo che ci dà una canzone e creare un testo? Attenzione: un testo completamente autonomo dalle liriche della canzone stessa, che rappresenti piuttosto la nostra personale ricreazione del mood, delle sensazioni che la canzone ci dà. Si parla tanto della musica come colonna sonora della scrittura: be’, esplicitiamo queste colonne sonore! Ascoltiamo qualcosa che ci piace? Scriviamo per questo qualcosa, su questo qualcosa. Scriviamo questo qualcosa.
Detto fatto, in piena trance erogativa, Scarpa allega non uno ma due testi: Que reste-t-il de nos amours di Charles Trenet e Fun Out Of Life di Billie Holliday.
Segue uno scambio di mail imbarazzante, quasi scandaloso per la felicità che ne erompe – quella felicità rarissima di quando un’idea ti ha fatto scavalcare di colpo un ostacolo al quale eri talmente abituato da considerarlo ormai parte del paesaggio, ha polverizzato una parete che eri convinto fosse un muro portante del palazzo. I testi si moltiplicano con una rapidità giustificabile solo da un raptus creativo, mentre la parola chiave – cover – rimane ancora nascosta... si parla di ricreazioni, di pseudotraduzioni, semplicemente di testi. Aldo Nove dov’è? Cerchiamo di metterci in contatto con lui, ma non lo troviamo. Alla fine (cioè 48 ore dopo il primo scoccare della scintilla) lo raggiungiamo, gli esponiamo il progetto e i primi esempi. Lui ci ascolta con aria benevola e interessata, tira fuori dal cassetto una composizione scritta parecchi anni fa, intitolata Heroin e pubblicata sulla rivista “Poesia”, e dice:
“Una cosa così, insomma.”
E’ una cover. E’ ciò che poi chiameremo una cover: una poesia scritta ascoltando una canzone del primo disco dei Velvet Underground: un testo che con il suo spunto di partenza instaura un rapporto così intimo e dichiarato da non accettare altro titolo al di fuori di quello della canzone. Un musicista prenderebbe semplicemente la canzone di Lou Reed e la rifarebbe secondo il proprio stile: questa sarebbe una vera e propria cover nel senso musicale del termine, che indica una pratica comunissima. E’ stato calcolato che sono state fatte oltre mille cover di canzoni dei Beatles. Ma noi non abbiamo chitarre e tastiere: abbiamo solo le parole.
Mentre torno a casa rifletto su questo triangolo equilatero, in cui ciascuno ha messo del suo e a ciascuno mancava qualcosa: io ho avuto l’idea di scrivere partendo da una canzone e performare il testo tenendo come base la canzone stessa, ma nella mia concezione iniziale ero troppo legato alle liriche originali; Tiziano Scarpa ha compiuto il passo decisivo suggerendo di passare dalla traduzione, più o meno libera, alla cover (anche se la parola verrà usata per la prima volta proprio sul palco di Brescia); Aldo Nove aveva già scritto una cover, anzi più di una, ma non le aveva viste come possibile parte di un progetto di ampio respiro.
Il resto, a partire dalla rocambolesca prima esibizione al MusicArt Festival, condita di incidenti grotteschi (fra cui una foratura in autostrada e una lite con Alessandro Haber e il suo piccolo complesso strumentale, che nella stessa serata e sullo stesso palco si sarebbe esibito dopo di noi in un’interpretazione delle milongas di Borges), è nei fatti.
Covers esiste come spettacolo dal 2 giugno del 2000, consiste nell’interpretazione di 10-15 testi sulla base delle canzoni originali che li hanno ispirati. Gli autori-performer si alternano al microfono, al cd player e al mixer, cercando la massima resa emozionale. Lo spettacolo dura da una a due ore, ed è stato replicato a una media di circa 30 date all’anno in Italia e all’estero, nei posti più vari: dalle biblioteche alle librerie, dalle scuole ai teatri, dai centri sociali alle università, dalle grandi manifestazioni all’aperto a strani incontri quasi costruiti su misura dentro palazzi, palestre, capannoni. Due picchi indimenticabili: i 700 spettatori che hanno riempito piazza Affari a Milano il 29 luglio 2001, per un’incursione da brivido della Milano poetante nel cuore della Milano finanziaria; gli oltre 1000 spettatori (paganti) del Festival Azioni InClementi di Malo, un mese dopo. Ma il numero degli spettatori ha sempre significato poco: la corrente emotiva giusta, la sensazione fisica di simpatia, gioia, amore, che per noi corrispondono a una serata di Covers interamente riuscita, sono scattate a volte davanti a trenta persone in una biblioteca piemontese, altre volte davanti al pubblico prima perplesso e poi affascinato di un teatro svizzero abituato al classico menu stagionale “Pirandello più Goldoni più autori dialettali”.
Covers è stato inserito in eventi rock come Arezzo Wave, festival di musica contemporanea come quello di Poschiavo, rassegne di poesia come quella di Genova. E’ stato recensito da poeti e critici letterari ma, forse più spesso, è finito nelle pagine degli spettacoli. Non è mancata (non poteva mancare) una serata talmente disastrosa da essere ormai divertente al ricordo e quasi proverbiale: l’esibizione a Caravaggio del 15 giugno 2001, segnata fin dal primo minuto da un gelo crescente, un’antipatia e un’incomprensione pressoché feroci fra pubblico e performer. Pochi giorni prima, una quarantina di testi erano confluiti nel libro Nelle galassie oggi come oggi. Covers, uscito con una tiratura di 3.500 copie nell’austera e beatificante “Collezione di poesia” Einaudi (la “bianca”, per intenderci) e andato in ristampa nel giro di due giorni esatti, dal martedì al giovedì. In curiosa coincidenza con un dibattito sulle pagine letterarie dei principali quotidiani italiani, in cui si sosteneva che nel nostro paese il pubblico della poesia è così sparuto, che anche poeti grandissimi arrivano a malapena a vendere 200 copie dei loro volumi... quando va bene.
Cos’è, allora, il piccolo o grande fenomeno Covers? A cosa si deve lo speciale rapporto con il pubblico che sia lo spettacolo sia, autonomamente, il libro sembrano creare? Quanta di questa magia è dovuta alla musica – allo speciale rapporto fra musica e scrittura che ci siamo inventati?
Comincerei con lo sgombrare il campo da un facile equivoco. Scarpa, Nove e io abbiamo una nostra notorietà e un nostro parco lettori come autori di libri in prosa; si potrebbe quindi pensare che, almeno per quanto riguarda le vendite di Nelle galassie oggi come oggi, ci sia stato un effetto traino o volano, che insomma il libro abbia ereditato una porzione rilevante del pubblico affezionato a Nove, Scarpa e Montanari prosatori. L’obiezione che va fatta immediatamente è che tutti gli esperimenti precedenti, di trasmigrazione dalla prosa alla poesia, hanno avuto esiti molto meno entusiasmanti. Autori di vasta fama non solo letteraria ma anche televisiva realizzano vendite a quattro o cinque zeri con i loro romanzi, mentre quando provano a levarsi lo sfizio e piazzare la raccolta di poesie vanno in rosso. Questo mi fa pensare due cose:
a) Che, se è vero che nel nostro caso una certa coincidenza di pubblico fra le opere precedenti e la raccolta di Covers esiste, bisogna dedurne che la generazione di autori che Scarpa, Nove e io rappresentiamo ha creato a sua volta una generazione di lettori di tipo nuovo. Lettori cioè non necessariamente fedeli a un format letterario (il romanzo) classico e rassicurante, ma pronti a mettersi alla prova con contenitori diversi, a riconoscere la stessa voce e la stessa integrità artistica dentro forme espressive profondamente differenti sotto l’aspetto della catalogazione di genere. La produzione di Scarpa ne è un esempio: il lettore scarpiano ha svariato fra due romanzi (Occhi sulla graticola, Kamikaze d’Occidente), due raccolte di racconti (Amore®, Cosa voglio da te), due libri di saggi molto sui generis (Cos’è questo fracasso?, Corpo) e una guida turistica “sensoriale” (Venezia è un pesce), per non parlare dell’interesse suscitato da testi teatrali e radiodrammi.
b) Che la specificità di Covers è piuttosto l’aver colto con un atto creativo, quindi per forza di cose individuale, una modalità universale di rapporto con la musica rock-pop. Con la canzone, diciamo.
Ricordate Pontiggia? Il problema dello scrivere mentre si ascolta musica, beneficando delle reazioni euforiche ed emotivamente violente che la musica instaura in noi, si può solo eliminare alla radice (non ascoltandola)... o trasformare in un’opportunità.
Lo stesso Scarpa in un’intervista ha osservato che, quando ascoltiamo una canzone che ci piace, raramente riusciamo ad ascoltarla e basta: ci alziamo, camminiamo, balliamo, oppure restiamo seduti ma battiamo il tempo, cantiamo anche noi. La canzone tende all’esubero, crea un plusvalore di energia corporea, una tensione centrifuga (molto diversa, in questo, dall’attitudine centripeta del testo letterario, che richiede per sé tutta l’attenzione e spinge il suo fruitore a una concentrata immobilità). “Ecco” dice Scarpa, “a noi la canzone ha mosso la parola.
Invece di ballare, ci siamo messi a scrivere”.
A scrivere cosa?, aggiungo io. Direi: a dare voce a quello che succede a tutti, cioè mettere su carta il trip, il viaggio nella fantasia che è stato stimolato in noi da una combinazione di stimoli: il titolo del brano; la sua atmosfera musicale; quei frammenti di testo che, in una canzone scritta in inglese, francese o tedesco, emergono dalla massa scarsamente comprensibile del cantato e diventano degli indizi, dei segnali direzionali di senso, dei tasselli di un puzzle la cui ricostruzione è comunque sempre personale, mai fedele alle intenzioni di chi ha scritto la canzone stessa. Questo è il motivo per cui non abbiamo mai fatto una cover di una canzone italiana: che senso avrebbe, sul piano poetico, mettersi in competizione con parole già pensate e scritte nella nostra lingua? Sul piano performativo, che fastidioso intreccio verrebbe fuori fra le parole del cantante e quelle del poeta-performer?
E questo è il motivo per cui Covers è stato molto amato, molto detestato, molto imitato. Come un’esperienza estrema e in qualche modo terminale fra la scrittura e il mondo dei suoni, con le sue suggestioni dirette e universali a cui, ormai, non possiamo più rinunciare. Non possiamo sfuggire.






8. Nel 2005 ho scritto per «D» tre articoli sul rapporto uomo-donna. Questi pezzi, piuttosto ampi, si uniscono ad altri usciti a mia firma in questi anni su diversi magazine femminili, tutti in bilico fra temi come sesso, sentimenti e costumi che cambiano. Il primo dei tre articoli cerca un punto di vista originale su un tema vecchissimo.

LA STRATEGIA DEL DOPPIO LEGAME
(“D”, 25 giugno 2005)

Fateci caso: quando cambia la realtà, cambiano sempre anche le parole che la descrivono. E viceversa.
Prendiamo un vecchio, glorioso e peccaminoso attrezzo del vocabolario amoroso-sessuale, la parola amante. Ne avete notizie? Dove si è cacciata? La vediamo riaffiorare di tanto in tanto dalle paludi minacciose della cronaca nera, ma anche lì ha sempre un sapore strano, pare un pezzo di antiquariato: “Il delitto degli amanti diabolici”; “Uccide la moglie insieme all’amante”; “Il tragico destino degli amanti clandestini”. Sembrano sottotitoli di film degli anni ’50! Anche di Garibaldi o di Fausto Coppi si può dire che avevano delle amanti, ma la parola, appena pronunciata, si copre di un velo di polvere secolare. Carlo d’Inghilterra e Camilla Parker-Bowles erano amanti, prima di diventare marito e moglie? E’ questa la definizione esatta del loro rapporto?
Nella vita normale, fuori dall’eccezionalità della cronaca o della storia, chi direbbe oggi: “Mio marito ha un’amante”? (L’apostrofo è facoltativo.) Immaginiamo di confidarci con un amico o un’amica, di cercare solidarietà e conforto; se sbagliamo parola rischiamo che il nostro interlocutore si metta perfino a ridere. Qualche giorno fa, ho parlato al telefono con una quarantenne che non sentivo da tempo e le ho chiesto notizie del suo matrimonio. “Mio marito ha una donna,” ha detto lei.
“Come?”
“Mio marito si vede con una.”
“Cioè... nel senso che ha un’amante?”
“Be’, ecco, si è messo con una tipa.”
In realtà, e questo è il vero punto di tutto il discorso, ormai facciamo fatica anche a usare la parola tradimento. C’è in essa qualcosa di pesante, di impegnativo, di irrimediabile, che non vale solo per chi tradisce ma anche per chi è tradito. Intendiamoci: è una parola gettonatissima nei talk show televisivi, e non è certo obsoleta come amante; tuttavia si è restii a impiegarla nel descrivere situazioni che ci toccano personalmente.
Quando ci si riferisce a episodi occasionali, parlare di tradimento ci sembra esagerato. La gelosia brucia, lo tsunami si scatena, ma la testa dice no. Quelli non sono tradimenti, pensiamo: non sono una cosa tanto grave come un tradimento. C’è una schiera di sinonimi pronti a soccorrerci, a toglierci intere tonnellate di sofferenza dalle spalle: distrazioni, scappatelle, infedeltà, divagazioni, esperienze extraconiugali (o semplicemente: fuori dalla coppia), avventure.
E quando si tratta, come nel caso della mia amica, di una cosa più seria? Di un legame che dura nel tempo?
Paradossalmente, parlare di tradimento sembra ancora più fuori luogo. Se tua moglie ha un altro uomo da tre anni, come fai a dire che ti tradisce? Sta con lui, basta. Sta anche con lui. Tradisce lui con te e te con lui; quindi non tradisce, ha semplicemente un doppio legame amoroso.
Così il tradimento galleggia a metà strada fra il troppo e il troppo poco, e viene sostituito da espressioni che, a guardarle bene, sono tutte perfette per descrivere la situazione dell’altro (lui sta con una, lui ha avuto un’avventura) ma non la mia (sono stato tradito!). E’ come se ci difendessimo dal trauma di dover definire ciò che sta avvenendo, e credo che questo disagio nell’usare certe parole descriva una vera e propria evoluzione genetica del tradimento, e di conseguenza della vita di coppia.
Intanto, chi tradisce mantiene spesso una doppia fedeltà, al vecchio e al nuovo amore. Naturalmente il sapore delle due situazioni è diverso, almeno all’inizio: la relazione consolidata promette serenità, un punto di riferimento preciso, un porto a cui approdare, bene o male, più o meno contusi e feriti, quando si torna a casa dopo aver fatto vela verso isole sconosciute. La relazione nuova ha dalla sua il colore intenso delle cose appena cominciate, la sensazione aurorale, rigenerante, a volte adolescenziale, di tutte le prime volte che con il partner di sempre non possiamo più sperimentare, perché ormai non sono più le prime ma le centesime o millesime. Questo vale per le esperienze sessuali come per quelle sentimentali: parlo dell’emozione di fare un gesto o pronunciare una frase, condividere una risata, un dolore, un paesaggio, una musica. Col tempo, tuttavia, anche la relazione nuova perde la sua novità, si normalizza e mette su peso. Diventa rassicurante, piacevole e un po’ noiosa come l’altra.
Conosco un noto uomo di spettacolo, un regista di cui non farò il nome, che ha avuto due figli da sua moglie e una bambina da un’altra donna, l’attrice che da quindici anni è la sua interprete preferita. Quest’uomo divide regolarmente la sua vita fra le due “famiglie”, che sono a conoscenza l’una dell’altra. I figli si frequentano.

Parole come amante e tradimento qui suonerebbero assurde; ma non è l’unico caso che mi è noto, anche se la presenza dei figli lo rende speciale. In realtà, questo tipo di rapporti comincia ad avere un’incidenza sociale.
Questo il punto di vista del traditore, di chi prende l’iniziativa di allargare la coppia. A seconda di come lo consideriamo, possiamo trovarci dentro cose differenti: l’egoismo di chi vuole tutto, non sa rinunciare e soprattutto non sa soffrire per una scelta; forse anche l’incapacità di dire no, da una parte o dall’altra, e accettare il senso di colpa che si scatenerebbe nel veder soffrire la persona rifiutata. Ma c’è anche dell’altro, credo. L’uomo di ho appena parlato, per esempio, è sempre stato coraggioso e, curiosamente, piuttosto tradizionalista: lui è onestamente convinto di poter garantire a entrambe le compagne della sua vita amore, supporto, attenzione, perfino passione; insomma, quello che ci aspettiamo in una famiglia. La sua scelta di non rinunciare è stata audace ed è possibile criticarla quanto si vuole (di sicuro, ciascuna delle due partner avrebbe preferito non dover coesistere con l’altra!), eppure i risultati l’hanno premiata: lo strano triangolo non si è mai incrinato.
Questo atteggiamento ci aiuta a riflettere sull’altro punto di vista, quello del tradito. La difficoltà di usare la parola stessa, tradimento, rivela una cosa che non so se definire altamente civile o, al contrario, terrificante: sembra che si siano abbassate moltissimo le aspettative che abbiamo sulla vita di coppia. Il che, temo, significa semplicemente che si sono abbassate le aspettative che abbiamo sulla felicità che il mondo ci può dare. Nel secolo appena passato abbiamo assistito a un cambiamento epocale. La liberazione sessuale degli anni Sessanta ci ha insegnato due cose apparentemente in contraddizione: che si può cercare la massima intensità di emozioni rompendo i legami con partner fissi, esplorando come predatori il mare aperto alla ricerca del piacere e dell’avventura; al tempo stesso, che si può, forse si deve, pretendere la felicità dall’amore. Si può chiedere il massimo a noi stessi e agli altri, e soffrire quando non lo si ottiene, e questo anche nella relazione di coppia. E’ paradossale, vero? Eppure l’eredità che quegli anni ci hanno lasciato ha proprio questa doppia valenza: vivi la tua unica vita senza negarti nulla (tradimenti inclusi); légati a un partner lasciandoti travolgere dall’attrazione fisica, dal sentimento, dalla voglia di costruire per il futuro, e a quel punto, quando sarete in due e non più soli, pretendi tutta la gioia che la vita di coppia ti può dare. Se questa gioia non arriva, se lui o lei ti deludono, straccia il contratto e vai per la tua strada, a cercare altrove.
Lo slancio vitale degli anni Sessanta e Settanta e l’edonismo del decennio successivo sono come franati, alla fine del secolo, in un senso generale di insicurezza, instabilità, dubbio. Cosa posso chiedere io veramente al mondo? Il mondo mi deve qualcosa, è in debito con me, mi aspetta per gratificarmi? Forse no. Non nel lavoro, tanto per cominciare: tutto è diventato precario, la strada ben disegnata che avevano davanti i miei genitori si è fatta contorta, impervia; nessuna tappa del mio cammino mi promette che otterrò quello che voglio; se l’avrò ottenuto non sono certo che potrò mantenerlo. E i sentimenti vanno di pari passo in questa distruzione delle certezze.
Se il panorama è questo, poter contare su qualcuno diventa un valore così grande da rendere docili ai compromessi. Avere qualcuno, avere se non altro questa sicurezza nel magma che ci circonda! Il voglio tutto si trasforma in voglio almeno questo. Voglio almeno che tu ci sia, quando ti cerco, quando ho bisogno di te per stare bene. Posso chiudere gli occhi sul resto, creare una zona d’ombra che protegga (e nasconda) quello che di te non vorrei nemmeno sapere: le inquietudini, le assenze, le fughe, le amnesie che ti allontanano da me. L’importante è che tu ritorni, come ritorno io dai miei viaggi nell’altrove dei sentimenti o dei sensi. Da tutti i momenti in cui mi dimentico di te.
L’ho detto e lo ripeto: non so se questo abbassamento di aspettative è un male, come sembrerebbe a prima vista, o è invece anche un bene.
Certo non c’è da rallegrarci per le trasformazioni storiche e sociali che ci hanno messi in questa condizione. Sarebbe stato meglio continuare a credere di poter ricreare il paradiso in terra... o almeno nell’appartamento in cui abitiamo con la persona che abbiamo scelto.
Però l’atteggiamento di chi guarda la vita e l’amore con uno sguardo disincantato, profondamente laico, senza crearsi miti ma cercando di volta in volta l’emozione e il benessere dove li può trovare, ha anche qualcosa di sano e vitale.
Tutto diventa più prezioso, perché ogni cosa dev’essere conquistata momento per momento. Se il mondo non ci deve niente, allora tutto quello che ci arriva è un regalo. Sentiamo più intimamente il calore che ci dà la vicinanza di chi amiamo, ora che non siamo più distratti da sogni irrealizzabili su partner perfetti, impeccabili, scesi direttamente dalla terza luna di Saturno. Non è accontentarsi: è guardare se stessi e chi ci sta vicino con occhi vergini, riacquistare la capacità di stupirci per un gesto inatteso, una confidenza, una richiesta, la riscoperta di un gioco intimo che avevamo dimenticato. Lui o lei sta al nostro fianco in questo piccolo esercito di due sole persone, che affronta il mondo e la sua confusione e ostilità, i suoi cambiamenti troppo veloci.
Tutto scorre come un fiume, anche i miei desideri e le mie insofferenze, ma tu ci sei. Questo può bastare, può essere molto. Può essere tutto quello che mi sarà dato per ora e per sempre, e non voglio rinunciarci.






9. Sempre in tema, un pezzo a struttura e oggetto obbligati, per «Marie Claire»: fare una serie di affermazioni robuste introdotte dalla formula “Credo che”. Elena Stancanelli era il controcanto femminile in questo duetto.

CREDO CHE
(«Marie Claire», aprile 2006)

Credo che le donne siano più generose degli uomini: voi riuscite a eccitarvi anche davanti a pancette, rughe e stempiature, quando ne vale la pena. Noi, raramente.
Credo che i maschi si dividano in tre categorie: quelli che ce l’hanno lungo ne sono contenti; quelli che ce l’hanno corto non sono contenti per niente; quelli che ce l’hanno medio sospettano di averlo corto pure loro.
Credo che quando sei a letto con una donna e ti viene una fantasia bizzarra l’ultima cosa che devi fare sia chiedere: “E’ permesso?”.
Credo però che quando lei comincia a chiamare aiuto e i vicini battono i pugni nel muro forse è meglio che la smetti, qualunque cosa tu stia facendo (magari le stai leggendo le tue poesie).
Credo che esistano solo tre o quattro sessi, non di più. Neanche di meno, però.
Credo che non sia più tanto vero che quando un uomo tradisce lo fa per sfizio, mentre una donna tradisce solo se è già in crisi col suo compagno; purtroppo o per fortuna, cominciamo ad assomigliarci anche in questo.
Credo che, rispetto ad altre cose intriganti che si possono fare a letto, la penetrazione sia sopravvalutata. Non è poi sempre questa estasi sublime, dài: è più che altro una gran comodità.
Credo che oggi la moda sia molto democratica e che non esista una sola ragazza al mondo, per quanto poco favorita dalla natura, che non possa sentirsi sexy in classe o in ufficio o a una festa.
Credo peraltro che gli uomini che vedi in giro siano mediamente più belli delle donne. Solo che a me piacciono di più le donne.
Credo che, per capire quanto siamo semplici (o rozzi) noi e quanto siete complesse (o complicate) voi, basta guardare i rispettivi organi genitali.
Credo che le donne col seno molto grosso abbiano più difficoltà a dimostrare di essere intelligenti, anche se non è giusto e ci sono parecchi esempi contrari.
Credo che sia bellissimo guardare una donna mentre si masturba: concentrata su se stessa, gli occhi chiusi, quel leggero movimento che sembra cercare qualcosa di remoto, sepolto fra le pieghe dell’intimità.
Credo, anzi sono sicuro che per un uomo conta quasi solo il senso della vista per far scattare l’attrazione, mentre nella donna è piuttosto un concerto dei sensi; l’olfatto, per esempio, è importantissimo.
Credo che il sesso sia l’equivalente adulto di ciò che il gioco è per i bambini; proprio perché è un gioco andrebbe smitizzato e al tempo stesso preso più sul serio.
Credo che nonostante Sex and the City gli uomini rimangano molto più chiacchieroni delle donne sulle imprese di letto.
Credo di avere incontrato nella mia vita alcune donne (poche, per la verità) talmente stronze a letto che quasi non ci potevo credere. Sospetto che pensassero lo stesso di me.
A furia di sentirmelo ripetere da tutti, credo sia vero che il massimo piacere per i colleghi maschi è farselo prendere in bocca. Io però non sono tanto d’accordo, sapete?
Credo che chi, come me, è stato ragazzo prima dell’era dell’AIDS stenti a capire cosa significa vedere la morte nascondersi nell’amore. Per noi il rischio di un rapporto non protetto non era la morte ma una vita. Indesiderata.
Credo che una certa ossessione maschile di metterlo dietro invece che davanti sia un po’ passata di moda: non ne parla più nessuno, forse perché non si trovano più quelle donne timide che impallidivano alla sola idea. E quindi la rendevano interessante.
Credo che alla fine la parte più bella del corpo di una donna siano i piedi. Ma è un’opinione personale, anche se sempre più diffusa (uniamoci, fratelli!).
Credo che non sia possibile essere cattivi a letto, solo stupidi; se fai del male a una donna è perché sei stupido, non perché sei crudele o perverso.
Credo che la donna ideale non esista, e se pure esistesse sarebbe molto meno interessante dei milioni di donne reali che ci sono, con le loro voglie, le loro paure, le loro timidezze.
Credo proprio che mi piacerebbe fare l’amore almeno una volta con tutte le donne del mondo, se non altro per curiosità: cosa mi dirà quella lì? Cosa mi farà quell’altra? E la ragazza che sta aspettando il tram qui sotto, come reagirà se le chiedo di farsi legare al tavolo in cucina?
Credo che non finirò mai di fare scoperte sul mio eros, perché ogni tre o quattro anni devo azzerare tutto e ricominciare da capo: mi piace da matti questo, non mi piace più quell’altro, eccetera. Resta da capire se sono io che cambio o semplicemente se mi conosco sempre di più.
Credo che sia molto divertente saccheggiare il mondo insieme a una donna: camminare per la strada, vedere facce e corpi, e tornati a casa raccontarsi a letto le fantasie che ci hanno suscitato e metterle in comune.
Credo che, quando una donna solleva la maglietta o scosta il reggiseno per mostrarti le tette, la cosa che veramente ti sradica l’attrezzo dai pantaloni sia il suo sguardo mentre lo fa.
Credo che nessuna donna mi piaccia più di una donna che vuole piacermi.
Credo che quando ho davvero voglia di farlo con te e lo sperma mi intossica il sangue anche la capocchia di uno spillo sia uno spazio sufficiente, perfino piacevole, mentre quando non mi va l’intero pianeta può risultare stretto e scomodo.
Credo che invecchiare insieme alla persona che si ama e continuare a desiderarla fino all’ultimo sia la cosa più dolce, più simile al paradiso in terra che si possa immaginare. Questo è un augurio per tutti.






10. Questa lettera venne pubblicata sul «Corriere della Sera» nel pieno del dibattito sull’intervento in Iraq, nella rubrica in cui Paolo Mieli rispondeva ai lettori. Contiene un’osservazione sul pacifismo che ha qualche originalità. Poco tempo dopo, come mi fece notare un redattore, venne ripresa parola per parola da un noto articolista di quello stesso giornale senza citare la fonte, ma questo è l’augurio migliore che si può fare a un’idea: diventare rapidamente anonima.

Milano, 23-03-03

Caro Mieli, le scrivo per sottoporle una brevissima considerazione su quello che mi sembra un anello mancante in molte discussioni sul pacifismo.
C’è un’obiezione alle manifestazioni pacifiste che definirei classica, alla quale non ho mai, dico mai, sentito dare l’unica risposta giusta.
Quando, nei dibattiti televisivi, i sostenitori di questo come di altri interventi armati zittiscono i loro avversari rinfacciandogli di non essere mai scesi in piazza contro Saddam, perché tutti sembrano imbarazzati, come di fronte a un argomento vincente, e nessuno risponde la cosa più ovvia?
Scendere in piazza contro Saddam non avrebbe nessun senso, da parte degli occidentali. Cosa importa a Saddam o a qualsiasi altro dittatore asiatico o africano, se in piazza del Duomo si manifesta contro il suo regime? Il suo popolo verrà mai a saperlo? Le decisioni del suo governo muteranno, i suoi sgherri mitigheranno la propria ferocia? Invece è ovvio che i pacifisti manifestano contro chi li può stare ad ascoltare, cioè contro i governi che sono dalla loro stessa parte della barricata. Ed è altrettanto ovvio che queste manifestazioni hanno almeno ottenuto un risultato minimo: quello di accentuare, da parte di chi prende le decisioni anche a livello militare, l’attenzione ad agire verso obiettivi di ridotto impatto sui civili. Le manifestazioni servono almeno a dire: vi teniamo d’occhio. Non andate là a fare un macello, come se aveste alle spalle un muro compatto di gente che vi sostiene qualunque cosa possiate fare.
Se la mia famiglia è in lite con un’altra famiglia, e io vedo mio padre o mio fratello armare una doppietta per prendere a fucilate gli altri, cosa farò? Con chi potrò alzare la voce, gridare, per evitare un massacro? E’ chiaro che griderò con i miei parenti, che cercherò di fare ragionare quelli che stanno dalla mia parte; non avrebbe senso che andassi a questionare con gli altri: chi mi ascolterebbe?
Quindi la scelta di manifestare contro Bush non è, in sé, espressione del tanto chiacchierato antiamericanismo; è semplicemente pertinente al problema.






11. Anche se un po' dappertutto si ostinano a chiamarmi scrittore noir quando non addirittura "giallista", in realtà mi capita sempre più spesso di intervenire su temi di costume e società, in particolare con riflessioni sull'identità maschile, sulle relazioni sentimentali e simili. Questo pezzo è stato letto come una messa a fuoco quasi drammatica sul "problema maschile", e lo è.

LE DECISIONI DIFFICILI, OVVERO IL MALE (MASCHILE) DI CRESCERE.
(«D», settembre 2007)

Rimasta single da qualche mese, una giovane donna di trentacinque anni, chiamiamola Valeria, ha deciso di accettare il corteggiamento a cui da tempo l’ha sottoposta un fascinoso quarantenne. Nella prima fase di questa relazione Valeria non aveva ancora chiuso il rapporto precedente. Con un comportamento per me tipicamente femminile, ha chiarito la situazione con l’ormai ex fidanzato (lui era riluttante, benché fosse evidente che la loro storia era esaurita) e poi ha dato il taglio netto. Adesso lei è libera, quindi.
Il corteggiatore in questione ha una moglie da cui è separato ma che vede ancora, della quale ha sempre detto peste e corna. A questo punto Valeria si aspetta dunque che tronchi definitivamente con questa donna, per iniziare una nuova storia con lei.
Ma, appena prima dell’estate, la prima sorpresa: l’uomo dice a Valeria che, per poter comunicare alla moglie la grande svolta nel modo giusto, ha deciso di passare con lei le ferie! “Sai,” spiega, “il modo come io e lei risolveremo il nostro rapporto può fare molta differenza per me. Non voglio che mia moglie diventi davvero mia nemica...” Valeria, con pazienza sovrumana, digerisce la novità, facendogli però presente che al ritorno la situazione deve essere definita in un senso o nell’altro.
L’uomo è rientrato dalle ferie pochi giorni fa. Ha telefonato a Valeria, allegrissimo, proponendole una cenetta intima. “E la decisione?” ha ribattuto lei. “Che decisione?” “Sì, riguardo a tua moglie. Le hai parlato di noi?” “Ehm, ti devo spiegare di persona, dai, non così al telefono... Sì, abbiamo parlato, ma ci vorrà ancora tempo. Non sono cose che si risolvono da un giorno all’altro!”
C’è bisogno di riportare il resto della conversazione? Valeria aveva fatto un investimento emotivo profondo su quest’uomo. Ma a questo punto la decisione l’ha presa lei: non si vedranno più. Ed è stata la seconda volta in pochi mesi che Valeria, per motivi diversi, ha avuto il peso e la responsabilità di mettere fine a un rapporto.
Il comportamento che ho appena descritto rappresenta secondo me il vero problema maschile.
E’ sbagliato pensare che il punto debole dei maschi nelle relazioni affettive sia la loro molto pubblicizzata propensione all’infedeltà. L’infedeltà è soltanto una delle varie espressioni di una incapacità di decidere, di una irresolutezza esistenziale, che è il vero nocciolo della questione, almeno in questo momento storico e in questo contesto sociale e culturale.
Il rapporto che l’uomo ha con il proprio passato affettivo è spesso colloso. Ci rimane invischiato, fa una fatica enorme a chiudersi alle spalle certe porte e partire verso nuovi orizzonti senza nessun rammarico o retropensiero. Al contrario, capita di assistere a rimonte prodigiose di relazioni che sembravano morte e sepolte, a resurrezioni sbalorditive di volti, nomi, sentimenti che parevano archiviati.
Si parlava di infedeltà. Bene: provate a chiedere a un uomo se considera più grave tradire la propria compagna con la partner precedente oppure con una nuova conoscenza. La stragrande maggioranza degli uomini dà un peso bassissimo al tradimento con la ex, lo considera una specie di peccato veniale, una passeggiata nostalgica e tutto sommato legittima nel passato, e fra l’altro non si sognerebbe mai di confessarlo. Il rapporto con la ex sembra rientrare in un limbo fitto di ombre, dai confini indefiniti, a cui solo io ho accesso insieme ai miei fantasmi e tu non devi metterci piede. E’ una questione fra me e la mia coscienza (si fa per dire); tu, mia compagna, che c’entri? E’ meglio che tu non sappia niente, che tu non venga disturbata nel tuo amore per me da queste quisquilie innocue, che non fanno nessun male a noi due.
Ci sarebbe bisogno di un numero intero di “D” per citare tutti gli aneddoti, le situazioni di vita vissuta nelle quali ho visto all’opera questo terribile meccanismo. Molti miei conoscenti hanno trascinato per anni relazioni clandestine non solo con la ex più prossima nel tempo, l’ultima che era stata lasciata prima dell’inizio della storia attuale, ma addirittura con persone riemerse da un passato ancora più remoto. Altri, come il corteggiatore di cui ho parlato all’inizio, hanno distrutto la possibilità di cominciare qualcosa di nuovo, con una donna di cui pure si dicevano innamoratissimi, per la riluttanza a dare il fatidico colpo d’ascia agli ultimi, tenaci fili che li tenevano ancora legati a un nome, a un volto caro.
Ma a cosa è dovuto il ricorrere di questo tipo di impasse relazionale?
La prima risposta che viene alla mente, una risposta molto consolante dal nostro punto di vista, è che il maschio non dà all’amore un significato univoco.
Un uomo è perfettamente in grado di amare due o perfino più donne simultaneamente, provando magari un vago senso di colpa che è comunque in grado di gestire (noi siamo maestri, in questo): si limiterà a ripetere a se stesso e ai suoi confidenti che non toglie nulla a nessuna di loro, perché i sentimenti che prova per ciascuna sono di natura diversa. Una donna tende perlopiù a concepire l’amore come un impegno totalizzante ed esclusivo, per cui non ci può essere una sovrapposizione fra due relazioni ma si procede in modo lineare, aprendo e chiudendo le storie sentimentali in sequenza, una dopo l’altra. Per un uomo non è così. Amore è una parola che gli suona leggera, disponibile, maneggevole: basta vedere con quanta disinvoltura la usa a letto. Ci sono tanti amori quante sono le donne che gli suscitano quella certa emozione speciale, e ognuno di questi amori ha un colore e un sapore diverso, ciascuno corre su binari destinati a rimanere separati.
Non sto dicendo che tutti gli uomini siano per natura bigami o trigami, anche se, dove l’istituto della bigamia esiste, pare che ci si trovino benissimo. Mi limito a osservare che nel maschio esiste una predisposizione a sentire e ad agire in questo senso. Poi la storia personale di ognuno di noi fa la differenza, è ovvio: ci sono uomini che amano una sola donna per tutta la vita; ce ne sono altri che hanno magari tre, quattro storie importanti e che le vivono di volta in volta in modo totale, senza concedersi divagazioni o ritorni di fiamma. Ma è mia profonda convinzione che in questo giochino soprattutto fattori casuali, oltre che culturali. In provincia, per fare un esempio, questo tipo di approccio esistenziale maschile “ortodosso” si osserva più spesso che in città.
Il problema è molto più radicale, e ha a che fare con una enorme difficoltà del maschio nel dare un indirizzo preciso e univoco alla propria vita. Ossia salire su un treno che farà quel percorso e non un altro; che si fermerà in molte stazioni ma alla fine arriverà a quella destinazione e non a un’altra, senza spazio per ripensamenti, cambi di direzione, ritorni. Soprattutto ritorni.
C’è un annoso luogo comune secondo il quale il genere maschile sarebbe portato all’innovazione, quello femminile alla conservazione. Niente di più sbagliato, in campo sentimentale e non solo. Ogni uomo porta con sé una nostalgia irriducibile per certe emozioni adolescenziali; una voglia di far convivere passato e presente, di conservare intatto ciò che è stato e affiancarlo a ciò che è ora e a ciò che sarà domani. Questo è il vero peccato originale da cui non ci emendiamo mai, che diventa il desiderio patetico e straziante di vivere a raggiera, di ripartire sempre da capo con una nuova storia, una nuova avventura (nell’amore, nel gioco, nel lavoro, nei cambiamenti che portiamo alla nostra vita) tenendoci però saldamente ancorati a quel perno originario che percepiamo come il nostro Io più vero e immutabile. Lì potremo ritornare sempre per poi ripartire, ritornare ancora e ripartire di nuovo. Vorremmo che la vita non fosse una catena di eventi che si susseguono implacabili lungo l’asse del tempo, ma un continuo girare e ritornare su se stessi, a quel nucleo emotivo che si è formato fra infanzia e adolescenza e che fino alla fine ci sembrerà il motore nascosto di tutte le nostre azioni, il volto autentico che si nasconde sotto le maschere del tempo.
Chi ha inventato il mito dell’adolescenza, chi lo perpetua nei film, nei romanzi, nei comportamenti quotidiani? Gli uomini. Esiste un mito femminile dell’adolescenza? Forse sì, ma è molto meno devastante. Gli psicologi ci dicono che infanzia e adolescenza sono regioni del tempo in cui i maschi abitano più volentieri, sia quando hanno l’età appropriata sia più avanti, quando sarebbe ora di cambiare prospettiva.
Ricordate Quarto potere di Orson Welles, che molti considerano il capolavoro cinematografico del ‘900? All’inizio del film, il tycoon dell’editoria Kane muore nel suo castello, mormorando una parola: “Rosebud”. Ne segue un’inchiesta giornalistica che ricostruisce la storia della sua vita, una storia di conquiste e azzardi, di amori tumultuosi, di orizzonti infiniti, sempre cercando di risolvere il mistero di quella parola pronunciata in punto di morte. Alla fine, la rivelazione: era il nome della slitta con cui Kane giocava sulle nevi della sua infanzia. Nell’ora della morte, Kane ritorna con il ricordo a quella che deve sembrargli la stagione più felice della sua vita. Una storia del genere avrebbe la stessa forza e verosimiglianza se fosse raccontata al femminile? Io dico di no. Sbaglio?
Nell’ultimo romanzo di Giuseppe Culicchia, il bellissimo Un’estate al mare, il protagonista sceglie di fare il viaggio di nozze nel paese siciliano dov’è nato, e tutta la vicenda è un contrappunto comico e amarissimo fra il suo girovagare nei meandri della memoria (incluso l’incontro con la ex!) e il solido, martellante desiderio della moglie di essere messa incinta proprio durante questa vacanza. Lui vaga come un topo nel labirinto del passato; lei è proiettata come una freccia verso il futuro.
La donna vive il tempo, vive il calendario e lo scadenzario della vita, vi si immerge con una confidenza e un coraggio che la maggior parte degli uomini ignora. Noi viviamo nell’illusione di arrestare il tempo, di conservare tutto – amori, affetti, sentimenti – in una simultaneità rovinosa.
I nostri errori più gravi nascono da questa incapacità di rinunciare. Da un conservatorismo emotivo nevrotico, coatto, che è la causa profonda di ciò che ci viene rimproverato da sempre: non saper crescere, non assumere responsabilità, imporre a chi entra con amore nella nostra vita una serie di dazi insopportabili da pagare alla famiglia, alla ex, agli amici, agli hobby, al posto dove siamo nati, alla musica che abbiamo sempre ascoltato, al guscio confortante che ci portiamo sulla schiena dovunque andiamo. Il passato che ci accoglie quando il presente ci prende a schiaffi. La nostalgia delle possibilità infinite che avevamo davanti a tredici, quindici, diciotto anni, all’epoca in cui nessuno ci chiedeva di rinunciare a nulla. L’io bambino che non vuole morire, mai.




12. Sulla versione cartacea del progetto Satisfiction di Gian Paolo Serino è uscito questo articolo molto pro e poco contro Don Lisander, che cerca anche di dire qualcosa di originale.

GLORIA A MANZONI DAL BASSO DELLA TERRA.
Sono un fan dei Promessi sposi, un pasdar di don Lisander. E la cosa grave è che per arrivare a questo grado estremo di perversione non ho nemmeno dovuto affrontare la classica parabola della rivalutazione, per cui uno è costretto a leggere un libro a scuola, gli fa orrore, poi per caso se lo ritrova in casa vent'anni dopo, lo rilegge e si sorprende per quanto è bello. No, a me i Promessi sposi sono piaciuti fin dalla prima lettura. I miei compagni di classe sbadigliavano, io per l'entusiasmo dimenticavo perfino di schiacciarmi i brufoli.
Comincerò subito a invocare come teste a mio favore uno scrittore che in apparenza sta all'opposto di Manzoni: il divino Edgar Allan Poe. Esiste una poco nota recensione dei Promessi sposi, in cui il genio di Boston elogia il libro dandone una lettura sorprendente e solo in apparenza personale: Poe considera giustamente I promessi sposi un grande romanzo gotico. C'è tutto, il castellaccio dell'Innominato, la vergine rapita, le scene grandiose della pestilenza, la sensualità devastata della Monaca di Monza, i grandi notturni che punteggiano la narrazione.
Per amare Manzoni bisogna imitare il magnifico Edgar e sbarazzarsi di quello che pare essere il contenuto fondamentale del libro, cioè la morale cattolica, l'elogio della sopportazione delle traversie della vita in vista di una ricompensa assicurata dalla divina provvidenza. Chi se ne frega di questa roba! I grandi scrittori, e non solo loro, spesso hanno scritto i loro capolavori per equivoco: pensavano di arrivare alle Indie e invece sono approdati in America. Togliete questa sovrastruttura ai Promessi sposi e vi rimarrà la sostanza: una macchina narrativa perfetta, compatta, potentissima, con una trama che parte dal motivo letterario più antico del mondo occidentale - già il romanzo greco, nel suo schema di base, racconta storie di sposi promessi, separati, ricongiunti - e arriva a un intreccio così limpido che Eco, in un famoso capitolo di Diario minimo, poté divertirsi a fingerlo un romanzo di Joyce e immaginare l'intera vicenda chiusa nell'arco temporale di un solo giorno.
Rimproverano a Manzoni la mancanza di psicologia dei personaggi, confrontano la povera Lucia Mondella con Anna Karenina? Sciocchezze! Rileggetevi la notte in cui l'Innominato medita il suicidio, il crescendo verosimile, terribilmente logico che dalla noia di vivere arriva alla pura angoscia. L'uomo prende in mano la pistola, sta per spararsi... cosa lo ferma? Il pensiero del suo corpo morto, l'indomani, nelle mani dei suoi servi. Un dettaglio meraviglioso!
E poi, che se ne fa Manzoni della psicologia dei personaggi? Lui ha la psicologia delle situazioni, che dal punto di vista narrativo è molto più importante. Rileggete il dialogo rarefatto, quasi metafisico fra il padre provinciale e il conte-zio, e vi sembrerà di ascoltare una intercettazione telefonica fra Moggi e un designatore arbitrale, o fra Berlusconi e un dirigente della Rai... con la differenza che l'italiano di Manzoni non ci stupra le orecchie
. Avete mai notato, piuttosto, l'incredibile crudeltà con cui Manzoni tratta i suoi personaggi? Li distrugge tutti, fanno tutti, prima o poi, una figura di merda, inclusi i più positivi, quelli che in teoria, essendo latori del suo messaggio di riconciliazione cattolica, dovrebbero essere immuni da pecche e meschinità, e che invece da immaginette che erano riacquistano la tridimensionalità e diventano semplicemente uomini. Il fatto è che nelle mani di un artista la materia di partenza, per quanto carica di intenzioni edificanti, viene sempre trasfigurata, i contenuti diventano carne viva, con le sue cicatrici, le sue slabbrature. La creatura sfugge al dottor Frankenstein e diventa uomo.
Avanti, tiratemi fuori un personaggio che non sottostia alla salvifica regola che ho appena enunciato.
Renzo è un emerito coglione e non vale la pena di sprecare parole. O vogliamo citare la morale che tira alla fine? E' completamente statica, Renzo non ha imparato niente. Il cerchio si è chiuso, il tallone di ferro di una Provvidenza capricciosa e imperscrutabile preme sui personaggi.
Cerchiamo meglio, ravaniamo fra quelli che la tradizionale lettura scolastica ci addita come modelli di virtù.
Fra Cristoforo? Prima obiezione: la sua vocazione nasce in circostanze di puro opportunismo. Il giovane snob accoppa un idiota come lui per il più futile dei motivi, un problema di precedenza pedonale, e si sottrae alla polizia rifugiandosi in un convento. Bella forza! La vocazione di fra Cristoforo, di per sé, non è molto diversa da quella del vituperato don Abbondio: è pragmatica, non certo idealista. E più avanti nel romanzo c'è una scena in cui il frate fa una vera figura barbina. Si presenta al palazzo di don Rodrigo per chiedergli di lasciare in pace i due fidanzati e capita nel mezzo di una discussione cavalleresca. Richiesto di un parere, in quanto esperto del mondo e uomo dai trascorsi aristocratici, bofonchia imbarazzato una formuletta che fa scoppiare a ridere i presenti e dà una stretta al cuore ai lettori.
E il cardinal Borromeo? Il santo, la cui figura storica era davvero ammirata dall'autore? E' incredibile, ma anche al "buon Federigo" è riservata la palata di letame che lo abbassa, fortunatamente, alla statura umana. Ricordate la scena che segue alla conversione dell'Innominato? Il grande criminale rivela al cardinale di avere rapito Lucia, e il povero don Abbondio viene incaricato di accodarsi agli uomini dell'Innominato e andare a recuperarla nel castello. Naturalmente il curato è terrorizzato e pensa: Grazie tante, ma se questi cambiano idea, a chi tagliano la gola per primo? A me, che sono qui come un agnello in mezzo ai lupi! A questo punto Manzoni fa tacere la sua voce narrativa e si affida interamente ai virgolettati che riproducono i pensieri di don Abbondio, in cui si fanno strada la perplessità, la critica, il risentimento nei confronti del cardinale, il cui primo compito dovrebbe essere quello di occuparsi del suo gregge, e che invece, per smania di grandezza e santità, preferisce fare l'incontro al vertice con Al Capone e prendersi gli applausi. Tutte le cose che don Abbondio pensa sono perfettamente vere, hanno una logica modesta ma irresistibile, e culminano in questa folgorante sententia: "Questi santi, il bene lo fanno all'ingrosso. Ma quando poi c'è da sporcarsi le mani ci vanno di mezzo i poveracci come me!" Manzoni sapeva benissimo che il suo pubblico borghese avrebbe dato ragione al curato. Il grido silenzioso di don Abbondio è quello del fratello del figliol prodigo, che domanda al padre perché c'è da fare tanta festa al farabutto rientrato all'ovile dopo i bagordi, quando lui è sempre stato lì a lavorare. Di più: è la rivincita di Tersite. Nel secondo libro dell'Iliade, questo soldato semplice descritto come deforme e malmostoso eleva una protesta che attraverserà la storia, il rinfaccio dell'umile che marcisce in trincea per una guerra che hanno voluto i potenti e di cui lui non capisce nulla. Omero fa prendere a bastonate Tersite da Agamennone, perché la società di vergogna e d'onore che lui descrive richiede questo scherno, ma il pubblico di Manzoni, sotto il sorriso, riconosce le ragioni di Tersite-don Abbondio, e cent'anni dopo Brecht ne farà una celebre poesia: Domande di un lettore operaio ("Cesare sconfisse i Galli. / Non aveva con sé nemmeno un cuoco? / Ogni dieci anni un grand'uomo. / Chi ne pagò le spese?").
Va bene, direte voi, ma Lucia? Almeno Lucia, l'anti-Karenina, Manzoni l'ha lasciata stare lì dove l'aveva messa lui, nella sua cornice da santino che si infila nel portafoglio.
Un accidente! Il vitale ridimensionamento umano di Lucia arriva proprio alla fine, quando il "coro" dei suoi nuovi compaesani dice al lettore e a Renzo - che un po' ci s'incazza - che questa ragazza intorno a cui è ruotata l'intera vicenda è, tutto sommato, una contadinotta qualunque e neanche così bella come tutti loro - e tutti i lettori! - se la figuravano. E' lo stesso procedimento usato ai danni di Federigo: mettere una considerazione simile in bocca a un personaggio, in questo caso a una comunità, invece di farla enunciare al narratore, è la cosa più bastarda che può fare uno scrittore, perché questo tipo di affermazione arriva al lettore con un impatto enorme, una grande forza di verità, proprio perché parte di rimbalzo dall'interno del testo. Quello che i bergamaschi dicono di Lucia è il rovescio di quello che i vecchi troiani dicono di Elena, ancora in una scena celeberrima dell'Iliade. Elena, di cui Omero non dà mai una descrizione fisica, sale a contemplare il campo di battaglia dalle mura di Troia, e un gruppo di vecchi cittadini (anche in questo caso un coro, a rappresentanza della comunità) commenta: Per una donna così, è valsa la pena di fare una guerra lunga dieci anni. La scena omerica innalza Elena a un rango sovrumano, ed è diventata proverbiale nell'estetica neoclassica e poi romantica; la scena manzoniana schiaccia Lucia al suo ruolo umilissimo, quasi comico, e anticipa di oltre un secolo uno dei più strepitosi controcampi della narrativa occidentale.
Nel suo romanzo più controverso, The Power And The Glory, Graham Greene ci racconta il calvario di un prete alcolizzato che attraversa il Messico inseguito dalla polizia di un governo anticlericale, che impone ai sacerdoti la scelta fra abiura e fucilazione. Tu leggi il romanzo, tutto raccontato attraverso il punto di vista del protagonista, e ti immagini questo prete tormentato con un aspetto ascetico, scavato, gli presti la faccia di Max von Sydow, di Anthony Perkins. Poi, ben oltre la metà del libro, improvvisamente Greene gira la macchina da presa di 180 gradi e ti fa vedere, per un attimo, il prete. Sorpresa: non è Anthony Perkins. E' il sergente Garcìa. E' un messicano basso, grassoccio, con la pelle unta.
La risata di Greene riecheggia quella di Manzoni: cosa ti aspettavi? Volevi Hollywood? Mi spiace ma io sono un narratore, non uno sceneggiatore prezzolato. Sono un artista e mi limito a darti la vita, non il sogno. Accontentati della vita, se ci riesci.





13. Per "Liberazione" un riflessione sconsolata su Milano.

LA CITTA' DEI FANTASMI E DI D&G
Durante le settimane della moda, Milano subisce un'interessante evoluzione.
Per il resto dell'anno si limita di solito a essere brutta, dura, inospitale e misteriosamente irrinunciabile: nel senso che anche chi, come me, la detesta, quando se ne allontana per un po' di tempo finisce per sentirne nostalgia. Milano è un bagno di realtà fatto città. Una discarica delle illusioni, che qui vengono triturate e trasformate in concime. E' un luogo di verità, perché qui non c'è tanto da menare il can per l'aia, anche per l'assenza di aie (i cani invece abbondano e fanno la cacca dappertutto): o hai i soldi o non li hai, o sei figo o non lo sei. In certi quartieri la gente ti squadra e t'inquadra in mezzo secondo. Ti ritrovi a fare il cubista non con il palo della lap dance ma con le quattro solide pareti della casella dove ti hanno ficcato a forza.
Nei periodi dedicati alla liturgia delle collezioni autunno-inverno e primavera-estate, la più laica delle città italiane prende una lieve coloritura gotica, perché si popola di fantasmi. Sono le modelle.
Fluttuano, o più spesso si trascinano, sui marciapiedi del centro e di certe zone che proprio centrali non sono ma che ospitano spazi adatti alle sfilate: perlopiù ex capannoni industriali o simili. Le loro facce pallide e scarnite punteggiano il panorama. Rarissimamente attirano l'attenzione con un abbigliamento sexy: di norma vagano nerovestite e spettrali, appese a fili invisibili. Il paesaggio urbano le interessa pochissimo, e fin qui posso capirle. Certo, però, che il livello di abulia, di assenza di reazioni, di inerzia corporea e mentale che molte di loro riescono a impersonare ha del prodigioso.
Nessuno le approccia per strada, semplicemente perché nessuno ne ha voglia. Lo sguardo del medio maschio milanese è bombardato quotidianamente da una tale messe di ragazze interessanti, di donne affascinanti, che ci sarebbe da girare per la città con un periscopio. La brutta città è piena di donne belle, spesso bellissime. Quanto più nel mestiere che fanno le attrattive fisiche sono superflue, tanto più loro ti rubano gli occhi: impiegate di banca, portalettere, commesse, manager dalla gamba nervosa e svelta. Le modelle, invece, durante il giorno creano zone di opacità umana dove lo sguardo incespica e appena può passa oltre. Di notte, certo, la musica cambia: agghindate adeguatamente, molte di loro vengono imbrancate e incanalate verso una piccola rete di locali dove li attendono i curiosi, i rapaci e un discreto numero di imbecilli. Agganciarle non è difficile. Sono sole, sono giovanissime, un po' ebbre di se stesse un po' terrorizzate dal presente e dal futuro.
Tempo fa, a una stilista che poteva permettersi il lusso della franchezza venne chiesto perché le modelle, in passerella e nelle foto, hanno sempre l'aria imbronciata, scontenta. E' certamente una scelta, suggerì subito l'intervistatrice, sgomenta all'idea di aver osato porre una domanda sconveniente: lo sguardo catatonico delle modelle, che riesce particolarmente bene a quelle dell'Est europeo, è lo sguardo cool, l'espressione di quella soddisfatta e appagata noia di vivere che nasce dall'aver girato il mondo, aver visto tutto, sperimentato i piaceri più estremi.
Macchè cool!, rispose la stilista, forse anche divertita dalle assonanze che la parola richiama in italiano. Queste modelle hanno ormai in media dai tredici ai sedici anni. La loro carriera dura tre anni, quando va bene; quando va male, uno solo. Molte guadagnano cinquecento euro a sfilata, che saranno anche metà dello stipendio di un muratore, ma di certo non sono la porta spalancata su orizzonti radiosi. Le più sfigate non vengono nemmeno pagate in soldi, ma in vestiti! L'altro ieri mungevano una vacca in Ukraina, oggi si ritrovano qui, scaraventate in un universo completamente alieno. E lei pretende che gli si dica di sorridere?, concluse la stilista. Hanno lo sguardo scontento perché non c'è nessun motivo che siano contente; e nei loro occhi e nella loro pancia non c'è niente di cool, solo smarrimento e paura.
Questa è la manovalanza delle passerelle, la realtà che sta dietro quelle quattro facce e quei quattro corpi e nomi che tutti conoscono, che finiscono nelle rubriche di gossip e di deficienza assortita dei magazine.
E l'altra faccia della medaglia sono proprio loro: gli stilisti.
I creativi. Anzi: i creatori.
Proprietari di imperi immobiliari, datori di lavoro inflessibili e capricciosi, ottimi professionisti, si ritrovano appiccata addosso l'etichetta di artista che Milano, in mancanza di meglio, è sempre prontissima a incollare qua e là a casaccio.
La loro rilevanza dal punto di vista del panorama urbano ha un impatto meno devastante rispetto a quella delle modelle, perché sono molto di meno e non li vedi quasi mai. A loro modo, realizzano l'ideale taoista dell'imperatore invisibile. Un giorno, dalle parti di piazza Cavour ho incontrato Dolce, o forse era Gabbana, insomma quello dei due piccolo e calvo, non quello alto e belloccio che fracassa le auto negli spot televisivi. Mi ha lanciato uno sguardo intenso e indagatore. Ritengo che il sesso non c'entri, doveva avermi scambiato per un commercialista.
Al di là dell'aura regale molto ben gestita da Giorgio Armani (ci avete fatto caso che veste uguale a Steve Jobs, il genio della Apple MacIntosh?) e dalla metamorfosi di Valentino in una macchietta a uso di Striscia la Notizia, Dolce e Gabbana arrivavano ottimi terzi in un'ideale top list della notorietà e forse anche del gradimento, in virtù del nome ben ricordabile, dello stravagante assortimento fisico della coppia, forse anche di un certo romanticismo che ormai si trova più spesso negli amori gay che in quelli eterosessuali.
Poi hanno avuto un invito alle Invasioni barbariche e lì sono riusciti nell'impresa quasi sovrumana di risultare queruli e antipatici, benché Daria Bignardi sia di solito in grado di estrarre palpiti di calda e trepida umanità anche da Uriah Heep o Marcello Dell'Utri. Da lì in avanti c'è stata una sequenza di gaffe impressionante: dichiarazioni discutibili, cartelloni pubblicitari rigurgitanti di armi da taglio e situazioni lette da molti come allusioni a stupri di gruppo, come se ce ne fosse bisogno.
Forse l'invisibilità è davvero la scelta più saggia. Il mito se ne alimenta, le figuracce restano fuori dalla porta insieme ai fantasmi. Pardon, alle modelle.





14. Sempre per Serino ma stavolta sul blog Satisfiction, la dichiarazione di nascita del genere Post-noir all'uscita di Strane cose, domani.

IL POST-NOIR. DIBATTITO VIA MAIL FRA GIANNI BIONDILLO, RAUL MONTANARI E GRAZIA VERASANI
RAUL
Ho coniato una definizione per il mio "genere", se così vogliamo chiamarlo, ed è una definizione che secondo me potrebbe addirittura promuovere un movimento.
E' il POST-NOIR.
Sappiamo cos'è il post-rock: la musica che fanno gruppi come i Sigur Ros, ma sotto molti aspetti anche i Radiohead di Kid A e altri. Partono dal rock e ne fanno esplodere la struttura. Viene meno il martellamento ritmico, tutto rallenta e si amplificano le visioni. In trasparenza, a ben guardare o ascoltare, percepisci ancora lo scheletro del rock, la sua energia; ma gli accenti e il pathos sono spostati su altro.
Secondo me in questo momento ci sono scrittori che, partiti dal noir, stanno esplorando un'altra area narrativa (dando uno spazio molto ampio ai personaggi e alla loro introspezione) senza mai dimenticare la lezione fondamentale della suspense. Con la suspense puoi raccontare meglio tutto: anche una storia d'amore; anche una vicenda statica, il decorso di una malattia, una goccia che scivola lungo un muro.
Io sono sicuro di fare post-noir almeno dall'Esistenza di dio, quindi questo è il terzo libro che sta certamente nella definizione che propongo; in realtà credo che valga anche per titoli come Che cosa hai fatto e La perfezione. Sono libri in cui i procedimenti narrativi e l'atmosfera del noir sono applicati a storie che non hanno al loro centro delitti, indagini, detective e criminali.
Fra gli autori che conosco, vedo la tensione al superamento del noir nel senso che dico in titoli come Tutto il freddo che ho preso di Grazia Verasani e anche in Biondillo: non solo Per sempre giovane, ma ora anche Nel nome del padre. Nota che sono libri in cui due autori diventati famosi legandosi a una figura di detective seriale rinunciano proprio a questa figura per raccontare un'altra storia. E anche il linguaggio ne risente: diventa più elaborato e ricco, pur rimanendo agile e funzionale alla vicenda narrata.

Cosa ne pensate? Siete i primi a cui ne parlo, oltre a Gian Paolo Serino. Ha senso provare a promuovere questo termine? Sapete che se funziona e viene adottato potrebbe avere una grande forza... Vi vengono in mente altri titoli o autori che rientrino in questa descrizione?

GIANNI
Adorato Raul (e Grazia carissima),
che ti devo dire? La definizione è sfiziosa assai, ma non ho tutta questa fiducia nei confronti dei giornalisti. Questo che è uscito ieri è il quarto libro che pubblico di seguito NON noir, e mi continuano a chiedere: "ha abbandonato il genere?" Che palle! Sembra un abbandono di minore! Sai tu giustamente parli di postnoir, ma con la critica e i giornalisti che ci ritroviamo a che serve? Ok, lo so, mai generalizzare, però, lo hai capito la mia fiducia è al lumicino. Il pregiudizio paracrociano è talmente interiorizzato che è difficile riuscire ad estirparlo. Per dire: quante volte abbiamo sentito la locuzione: "lo aspettiamo alla prova del romanzo." Ma che vuole dire? Ci sono geni della letteratura che non hanno mai scritto un romanzo che sia uno. È ancora l'ossessione tassonomica che prevale: il racconto è figlio di un dio minore che è il romanzo. È un'idiozia. Ma su queste reazioni pavloviane si regge la buona parte della discussione letteraria nazionale. L'altra, la più noiosamente annosa, la conosci: il "genere" è la serie B della scrittura, l'adolescenza del pennivendolo.
Quindi quando tu parli di postnoir lo fai esente da pregiudizi, indichi un punto nello spazio culturale in cui ci si è mossi e ci si muove, lo so, non certo un modo per dire: "ci siamo evoluti, siamo diventati maggiorenni". Però, dati i pregiudizi letterari sicuramente così verrà interpretato. Sono d'accordo a parlare di postnoir solo se se mettiamo in chiaro che esiste un prenoir, che è quello che molta falsa letteratura produce ogni giorno.

GRAZIA
1. Bellissima la definizione di post noir. Mi trovo concorde su molti aspetti, ed era anche un po' simile a quel che diceva tempo fa Evangelisti sul genere... Per quanto riguarda il mio caso, però, a ottobre mi esce il terzo Cantini, che è un poliziesco post noir :) A parte gli scherzi, è un Cantini sociale - si parla di violenza alle donne - e anche un Cantini esistenziale (o esistenzialista?). E' forse questa la matrice del post noir? Un esistenzialismo senza tanti cadaveri, alla Simenon di Bebè Donge in chiave moderna, col rispetto della regola fondamentale di cui parli, e cioè la suspense come antidoto alla noia autoreferenziale di tanta letteratura "bianca"? Il fascino di un mistero che progressivamente si svela, e dove conta più il viaggio dell'approdo, oltre a uno stile - una personalità - assolutamente letteraria? La decifrazione di un malessere, come l'ultimo libro di Todde?
Perdonate questi pensieri confusi... Rifletto... In ogni caso la definizione mi piace e mi ci ritrovo. Penso anche che questo sia un genere che non è più possibile definire rigidamente. Io sono per i movimenti, sempre, e se ciò serve ad attirare l'attenzione su un lavoro più sottile, più sperimentale, più ribelle rispetto alle etichette e ai pregiudizi, ben venga.
2. In questo senso, nonostante a volte ripeschino i loro personaggi seriali, non vi sembra che nel post noir non rientrino anche Carlotto o Carofiglio? O Acqua storta di Carrino... Di Fulvio? Alcune cose di Simi e Perissinotto? L'Antonio Monda di Assoluzione? Marco Malvaldi? Poi penso a La settimana bianca di Carrere (tutti i suoi libri in realtà), a Paraoid park di Nelson, a Un ragazzo italiano di Besson, a Mysterious skin di Heim e, perché no, anche Storia di un matrimonio di Greer, dove la tensione è formidabile e pur non essendo un "noir" ne ha alcune caratteristiche.

RAUL
Attenzione: molto probabilmente sarà impossibile arrivare a definire un movimento, perché come notate sia Grazia sia io stesso tendiamo a citare non tanto l'opera intera di determinati autori, ma titoli che coabitano con altri più ortodossamente noir; lo stesso fa Gianni riferendosi a se stesso, e anche tu, Grazia, quando distingui Tutto il freddo che ho preso dai tuoi libri con la Cantini, anche se ti domandi se pure questi libri possano essere chiamati post-noir. Io direi piuttosto che sono dei noir esistenzialisti. Sono noir per la presenza del detective seriale, e sono esistenzialisti perché la personalità di Giorgia Cantini, il suo sguardo sul mondo, il suo passato, Bologna, tendono quasi a far passare le trama in secondo piano. Per me il termine vale per definire questa produzione in coabitazione, e, allargando lo sguardo, per legarsi a una tendenza (quella appunto a far coabitare noir e post-noir nella propria bibliografia). E' un modo comodo e suggestivo per dare una definizione e dunque suggerirla, nonostante la sfiducia di Gianni, perché possa essere usata anche dentro lo spazio ristretto di una recensione.
A me viene in mente anche Marcialis, che parte da un thrillerone sociale come Le strade della violenza e approda subito, al secondo libro, a un titolo come Io e Davide.
Mi fa un piacere enorme parlare con voi di queste cose; possiamo aiutarci a definire il concetto. Anzi, direi che quasi già ci siamo.
Aggiungerei una cosa. Qualcuno potrebbe osservare (l'ha fatto per esempio Daria Bignardi discutendo il concetto mentre presentavamo il mio ultimo libro) che la suspense si trova anche nel romanzo d'appendice, esiste a prescindere dal noir. Però a me rimane l'impressione (di nuovo, come nel post-rock) che l'eredità del noir sia presente in questo tipo di produzione, per esempio nella presenza della violenza fisica, della morte violenta.
La differenza con il noir sta in questo: che la violenza non è la molla narrativa delle storie. E' piuttosto lo sbocco di rapporti e tensioni che non riescono a risolversi in un altro modo. E' un elemento di colore decisivo perché si mantenga nella definizione la parola "noir", ma non è essenziale sul piano narrativo. Direi piuttosto che è anche un modo per intensificare la corporeità dei personaggi. Noi tendiamo sempre più a espellere la corporeità dal nostro quotidiano, a coprire gli odori, a schiacciare la carnalità, e la rappresentazione della violenza fisica è una specie di memento, anche spettacolare e per questo affascinante, di questa fisicità. A parte questo, hai dei nomi da suggerire, Gianni?

GIANNI
Adorabili Raul e Grazia,
sono davvero felice di leggere quello che scrivete. Come mi succede tutte le volte che esce un mio romanzo cado in una depressione immotivata. A me fa male pubblicare, ecco la verità.
In realtà, come vi ho già detto, mi debilita la pochezza del mondo letterario patrio, fatto di schieramenti insensati, di battaglie campali per mantenere la posizione nel fango della palude letteraria. Sono stufo della critica parruccona, arroccata nelle accademie. Sono stufo di litigare per questioni di principio su Nazione Indiana o sui giornali. Di vedermi replicate sempre le stesse, facili, accuse, pressapochiste: letto uno, letti tutti, sembrano dire molti di questi parrucconi, facendo di tutt'erba un fascio. Oggi parliamo di noir talmente a sproposito che pensare al postnoir mi sembra utopistico. Anche perché, sinceramente, vi dirò che spesso criticare la proliferazione dello "spaghetti noir" non è insensato. La genia dei giallisti italiani ha davvero infettato la scrittura e sta irrimediabilmente corrodendo una tipologia nobilissima del racconto. La verità è che il noir è una cosa talmente seria che non bisognerebbe lasciarla fare ai noiristi, soprattutto quelli nazionali!
Per fare un esempio: La vita facile, di Richard Price è per me, seguendo il suggerimento di Raul, un postnoir. Come poliziesco fa schifo, la trama "gialla" è penosa, la scrittura è addirittura lenta, per nulla frizzante, senza colpi di scena. Ma il racconto dello scenario della New York inizio millennio che fa Price è figlio del modo di vedere il mondo del miglior noir del Novecento o del romanzo sociale ottocentesco. Tradizione e innovazione. Non un poliziesco, ma un affresco balzachiano.

GRAZIA
Sono d'accordo su tutto... Sul mio specifico, Raul, hai ragione: il mio terzo Cantini è un poliziesco, anche se un po' anomalo rispetto al polar classico (per assurdo era proprio Quo vadis baby a essere un postnoir). Sappiamo bene quanto sia difficile promuovere un buon romanzo noir in tempi dove questo genere è sfruttato nel peggiore dei modi, con una bulimia di scritti e di editori che si buttano sul genere per tirare a campare. La verità, secondo me, è che se un libro è mediocre lo è a prescindere dal genere che rappresenta.
Trovo giusto rivendicare la legittimità letteraria di questo genere. E lo facevano anche Chandler, Hammet, la Higsmith, che non volevano recinzioni, non facevano letteratura di consumo, sottolineavano il valore letterario delle loro opere (ed è la ragione per cui "gente" come Camus o Wittgenstein li amava). Insomma, la cura dello stile li rendeva romanzieri tout court. Pensiamo a Chandler e alle sue dark victory. Il lungo addio era una tormentata metafora della sua esperienza a Hollywood, e lui era considerato "Il Gatsby della letteratura gialla". Ma non sarebbe il caso di partire anche da più lontano? Da Poe? Da Dostoevsky che si ispirava a fatti di cronaca? O da Turgenev la cui neve abbacinante di certi racconti ricorda proprio La settimana bianca di Carrere?
Premesso questo, ciò che trovo interessante nella tua idea, Raul, è che una "corrente" di postnoirismo c'è già, nel senso di "giallisti" che scrivono bene contaminando più generi tra loro. I risultati non sono sempre edificanti (per un abbruttimento dei tempi che fa sì che le Highsmith o i Chandler non nascono ogni giorno), ma resta il fatto che la tendenza al chiaroscuro emotivo, alla trama (ben congegnata), al linguaggio (letterario), alla suspense (come abilità tensiva) è esattamente quello che ritrovo in molti tuoi romanzi, in quelli di Gianni e di altri scrittori... Tra l'altro, concordo su Marcialis.
Penso che sia interessante parlare di una tendenza che, se da principio era un tentativo di allargare il genere infrangendo alcune regole eccetera, ora è una novità, un marchio distintivo: la volontà, ad esempio, di riabilitare un'epoca in cui la Highsmith (scusate se cito ancora lei) sosteneva che in Italia i suoi libri non erano confinati, come in America, alla mera e semplicistica definizione di "gialli".
Insomma, non sarebbe male - anche se può sembrare presuntuoso - insistere su una corrente che forse sta facendo i primi passi all'interno di un mondo editoriale, e critico, distratto e frettoloso. Una corrente che riguarda scrittori che si sentono stretti dentro certe caselle e che producono libri che vanno oltre, o altrove, e che mostrano un'evoluzione (post-riflessiva): perché a differenza di molti libri "bianchi" (e a dispetto dell'ultima corrente nata in Italia, e cioè quella cannibale che per alcuni, tipo Ammaniti, è sfociata, con la complicità del mercato, in un postnoirismo di lusso), i libri postnoir offrono ingredienti classici e innovativi allo stesso tempo: si ispirano alla tradizione ma penetrano nella realtà, sono cioè autori dentro il mondo e non dentro il "loro" mondo, raccontano storie, comunicano direttamente col lettore, esprimono emozioni e anche colpi di scena, si muovono tra onde ciclotimiche e rappresentano quella sorta di "profezia della letteratura" di cui parlava Pasolini: una sorta di presentimento sociale dove è la finzione a interpretare la realtà e a darle un senso.

RAUL
Grazia, che piacere vederti citare due volte la Highsmith! Sai che secondo me lei è la regina e santa patrona del postnoir? Basta pensare: 1. che quando ha avuto voglia di serializzare un personaggio l'ha fatto con un cattivo, non con un detective; 2. molto più importante: la lentezza, soprattutto degli inizi (lei stessa ci scherzava sopra, dicendo che solo i suoi lettori più fedeli potevano aspettare fiduciosi che succedesse qualcosa dopo 100 pagine di introduzione all'ambiente e ai personaggi). E che trame meravigliose! E quanto poco gliene fregava di fare il "poliziesco"!
Diffondiamo un po' il verbo? Dai! Io ho parlato in questo senso alla Baldini, specificando proprio i vostri nomi - per cominciare - perché non ha senso spendere questo concetto solo per il mio ultimo libro, si capisce, sarebbe come prendere la Grande Berta e spararsi sui piedi!
Gianni, perché non fai un articolo dei tuoi su NI? Ma dei tuoi, neh?, quelli belli potenti. Io citerò la cosa in tutte le presentazioni che farò adesso e metterò la pulce nell'orecchio anche a qualche critico amico. Postnoir! Unico dubbio: staccato o attaccato? Trattino?
Postnoir
Post-noir
Post noir.

GIANNI
Per ora io sono al post-prandium! Poi, lo sai, Raul: io non parlo mai di me e dei miei libri su Nazione Indiana. Dei vostri, invece, lo farò di continuo e dappertutto, con autentico piacere.





15 Un intervento sulla querelle intorno alla possibile proibizione dell'uso del burqua. Cerco di dire qualcosa di originale facendo notare una strana simmetria nelle posizioni che si contrappongono.

Lo schema del burqa.
Faccio questa riflessione deliberatamente schematica sulle misure pro e contro il burqa.
La cosa strana è che ci sono due approcci opposti alla questione, sia da destra che da sinistra. Una specie di quadrato a quattro comparti, se lo si volesse disegnare.
Vediamo:

Da destra:
1. Favorevoli al burqa perché favorevoli all'espressione religiosa in genere, contro la laicità dello stato (infatti in Francia le misure contro il burqa si apparentano, ideologicamente, a quelle contro il crocifisso nelle aule e simili).
2. Contro il burqa per ragioni di ordine pubblico e perché non è la NOSTRA religione (ostilità contro l'Islam).

Da sinistra:
1. (Inclinazione libertaria) Favorevoli al burqa perché antiautoritari in genere, favorevoli a ogni libera espressione di idee e anche di culto.
2. (Inclinazione femminista) Contro il burqa perché è uno dei più palesi elementi misogini della pratica dell'Islam.

Io sarei per sinistra-2, anche perché il burqa ho provato a metterlo e usarlo, per un articolo su un settimanale, e vi assicuro che è molto limitante. Tanto per dirne una, è impossibile per una donna col burqa usare qualsiasi mezzo autonomo di locomozione, dalla bicicletta (provata da me) alla moto all'auto, perché manca la visione laterale e se giri la testa il copricapo non gira con te ma rimane rigido, accecandoti.
Difficile non pensare che sia un mezzo di asservimento della femmina al maschio. L'idea della "donna col burqa" è l'idea di una creatura limitata, lenta, non indipendente. Che le donne islamiche lo accettino significa poco, è una normale riduzione di dissonanza cognitiva.
Che però il suo uso venga regolamentato per legge è cosa che per me ha senso solo in una logica di ordine pubblico, nient'altro la giustifica. L'abbandono del burqa avverrà, se avverrà, per contaminazione culturale, in questo caso positiva; ma sono processi lunghi.








16 Dal 2010 tengo su "Grazia", lo storico magazine femminile, una rubrica intitolata "La differenza delle donne". "Grazie" è settimanale, quindi mi richiede una cinquantina di brevi articoli all'anno su questo argomento inesauribile. Ne scelgo tre che mi sembrano interessanti.

1. LA MACCHIA DI SUGO

Scena uno. Pausa pranzo in un locale. In mezzo alla folla vociante di impiegati, un uomo e una donna seduti a un tavolino.
"Ehi", dice lei. "Guarda che ti sei macchiato."
"Cosa?"
"Con il sugo della pasta... Lì, sulla camicia."
"Oh, cavolo. Ma dove?"
"Ce l'hai sotto il naso, la patacca. Non la vedi? Lì."
"Maledizione! Alle tre ho quella riunione importante, ci saranno tutti i capi..."
"Ma dove vai?"
"In bagno, no? Cerco di lavarla via."
"E su, Giorgio, non ti ha detto niente la mamma? Con l'acqua peggiori le cose. Meglio se chiedi al cameriere uno smacchiatore."
"Ma no, faccio da solo."
"Rimettiti seduto, dai. Lo chiamo io. Scusi!... Macché, è rientrato in cucina. Aspettiamo che esca."
"Lascia stare, mi sento un cretino."
"Eh be', se fai quella faccia. Uh uh uh."
"Ma che hai da ridere?"
"Eh eh eh! Niente."
"E' da un mese che lavoro per questa riunione... Non posso fare una relazione con la camicia sporca di ragù!"
"Infatti. Adesso risolviamo. Cameriere!"
"Abbassa la voce."
"Giorgio, come faccio a chiamarlo a voce bassa con il frastuono che c'è qui dentro? Cameriere!"
"Ssst!"
Scena due. Stesso locale.
"Ehi," dice lui. "Guarda che ti sei macchiata."
"Me n'ero già accorta, grazie."
"Proprio lì sulla camicetta, che peccato."
"Senti, Luca, cosa c'è che non va?"
"Come? Che stai dicendo?"
"Cosa vuoi segnalarmi con questa osservazione che mi fai?"
"Ma niente. Non vorrai che ti lasci andare in giro con una patacca di sugo sulla camicetta, no?"
"E' una macchiolina che non si vede nemmeno."
"Be', io la vedo."
"E proprio questo il punto, Luca. Tu di solito non vedi niente, non ti accorgi se mi sono fatta i capelli, potrei avere un pappagallo appollaiato in testa e non lo noteresti nemmeno! E oggi, chissà perché, la tua attenzione è rapita da un millimetro quadrato di sugo sulla mia camicetta! Guarda che ho capito benissimo. E' da un bel po' che ho capito."
"Cosa hai capito, si può sapere?"
"Abbassa la voce. Se sei stufo di questa situazione me lo puoi dire apertamente, senza offendermi con queste fregnacce della macchia di sugo. Abbi il coraggio di dirmi le cose in faccia!"
"Ma sei impazzita?"
"Sssst!"
Compare il cameriere. "Chi ha bisogno dello smacchiatore?"
"Qui" dice Luca.
"Noi!" dice la donna seduta al tavolo con Giorgio, dall'altra parte della sala.
Le due coppie si guardano.


2. DONNE IN GIOCO

Un argomento che sento citare a favore della tremenda tesi "le femmine sono meno intelligenti" è che le donne giocano a scacchi meno bene degli uomini. Sembra un tema frivolo, ma porta a considerazioni interessanti.
Intanto: che le donne siano meno brave degli uomini, nel gioco considerato "intelligente" per eccellenza, è vero? Forse sì. Basta guardare classifiche e risultati dei tornei agonistici, esaminare le partite e confrontarle. Un po' di competenza ce l'ho, perché a 15 anni sono stato vicecampione italiano juniores di scacchi. La differenza esiste, fra maschi e femmine. Ma ha senso dedurne che le donne sono meno intelligenti degli uomini? Oppure (versione più gentile) che sono meno dotate nel calcolo e nella visualizzazione astratta? No. Perché l'intelligenza si attiva solo quando è alimentata dall'emozione, dall'interesse!
La simbologia degli scacchi è così fallica, che ci sarebbe da stupirsi se una femmina ne fosse attratta. Chi è curioso al riguardo può leggere il bellissimo saggio di Reuben Fine, La psicologia del giocatore di scacchi. Il gioco mette in scena uno psicodramma maschile, dove il Re è il pene, cioè il pezzo più importante e più vulnerabile (la sua cattura pone fine alla partita!), eccetera.
Riprova: come mai nei giochi di carte questa differenza di abilità non esiste? Le donne sembrano anzi più portate dei maschi per questi giochi, che implicano un'intelligenza relazionale, pragmatica, emotiva. Gli scacchi non assomigliano alla vita: negli scacchi non esiste il caso, solo astrazione e calcolo. Nelle carte invece, come nella realtà quotidiana, il bravo giocatore è quello che riduce le perdite quando ha sfortuna, massimizza il guadagno quando ha buone carte in mano; ed è sensibile alle vibrazioni che gli trasmettono gli avversari.
Insomma, è sbagliato citare gli scacchi come un campo in cui le donne ci provano come gli uomini ma non ci riescono, ergo sono inferiori agli uomini. Piuttosto, le donne - salvo eccezioni - non ci provano come gli uomini, perché non sono motivate. Non corrono quella corsa, quindi è inutile tirare fuori il cronometro. E questo non vale solo per gli scacchi.
(Se uno volesse misurare la mia efficienza sessuale facendomi accoppiare con un cactus, farei una figura pietosa; ma in quel caso a essere valutata non sarebbe la mia potenza sessuale bensì il mio interesse per quel tipo di rapporto. Che non è un granché...)


3. LE GRANDI SEMPLIFICATRICI

Ho una tale stima della vostra sensibilità relazionale e del vostro dominio del linguaggio, che quando in questo campo mi arriva una delusione da una di voi l'impatto è molto più violento che con un maschio. Tutto sommato, io do per scontato che certi miei colleghi si esprimano a grugniti, con un lessico di 100 parole da cui vengono rigorosamente escluse le sfumature: "martello" c'è, "rammarico" no. Ma quando mi imbatto in esemplari femminili che suonano sempre la stessa nota, mi cadono davvero le braccia.
Per esempio, in un pezzo di un anno fa tessevo le lodi della vostra disponibilità ad accogliere il pensiero magico, ad aprirvi all'irrazionale senza aggrapparvi sempre alla logica, e citavo con simpatia anche il fatto che le donne non si vergognino a leggere l'oroscopo (mentre molti maschi lo fanno di nascosto). Però questo non significa che una possa spiegare tutto con i segni zodiacali, come fanno certe mie ex conoscenti, divenute ex proprio perché all'ennesima uscita del tipo "Eh, si vede proprio che è una scorpioncina, impossibile che vada d'accordo col capricorno", o "Uh, che Saturno contro che hai oggi!" chiudo la telefonata e cancello il nome dalla rubrica.
Attenzione: le Grandi Semplificatrici, chiamiamole così, non si negano nulla. Non c'è metodo di interpretazione della realtà che non possa essere da loro agguantato, sforbiciato, mutilato e ridotto a due o tre o formulette da applicare ovunque.
Ecco quella che di fronte ai comportamenti più enigmatici dell'essere umano ripete a pappagallo parole come "ossessivo", "compulsivo", "maniacale". Quell'altra ha letto la pagina di Wikipedia su Eric Berne, l'inventore dell'analisi transazionale, e da allora non fa che inquadrare qualsiasi essere vivente, cactus inclusi, nelle sue famose categorie dell'Adulto, del Bambino e del Genitore. A una festa ho incontrato una che parlava solo di energia positiva e negativa, anche riguardo all'ombrello che non si apriva o alla maionese impazzita, mentre una sua amica, incurante dei miei tentativi di darmi alla fuga, si incaponiva a spiegarmi che la caipirinha è yin mentre lo spritz è yang. Infine ha fatto irruzione una terza Semplificatrice, gemendo: "Ma no, quello che conta è se è biologico o industriale!". A quel punto le ho lasciate a strapparsi i capelli fra loro e ho infilato la porta.
Il mondo, fuori, mi è parso immenso, complesso, affascinante. Per fortuna.




17 Sul calcio (Facebook 2012).

Il calcio ha sbaragliato mediaticamente tutti gli altri sport anche perché alla base c'è un gioco semplicissimo. Per giocare a calcio, al limite, non c'è nemmeno bisogno della palla e del campo: come tutti, io ho giocato un sacco di volte con un foglio di giornale appallottolato, in una stanza.
Il calcio ammette ogni tipologia fisica, cosa che ben pochi altri sport fanno. Un campione può avere il fisico tracagnotto di Maradona o quello svettante di Van Basten. Le regole sono semplicissime. Il gioco ha raggiunto la perfezione nelle quantità, dal numero dei giocatori alle dimensioni del campo, della porta (ricordate quando, vent'anni fa, si parlava di ingrandirla per aumentare il numero dei gol?), delle distanze per rigore e punizioni ecc. Forse solo la regola del fuorigioco introduce un elemento di complessità e di discrezionalità che a volte stona. Aggiungiamo la ben nota coazione a non adoperare l'elemento fisico che ci ha contraddistinti nell'evoluzione della specie, ossia le mani, il che scatena elementi simbolici e regressivi affascinanti.
Insomma, non si discute sulla bellezza del gioco. Io discuto, eccome, la sua perversione, la creazione di un olimpo fittizio di semidei a cui tutto si perdona (vedi Buffon, che si comporta esattamente come quei politici che ci fanno tanto schifo, solo che lui a chi tifa Juventus fa un po' meno schifo), la vampirizzazione mediatica degli altri sport.
E mi ha sempre fatto orrore la logica del "right or wrong, my country", per cui a imbrogliare sono sempre gli altri, a fare il fallaccio o a godere della decisione arbitrale ingiusta sono sempre gli avversari, i "nostri" sono sempre più virtuosi.
E mi sgomenta il passaggio metonimico (più esattamente sineddotico) fra la squadra e la nazione, per il quale appunto oggi ci si permette di deridere i tedeschi come se davvero l'"Italia" avesse battuto la "Germania", mentre la Germania, per dirne una, ha risolto in vent'anni il problema dell'annessione della Repubblica Democratica quando noi in un secolo e mezzo non abbiamo ancora affrontato seriamente la questione meridionale. Se guardi il finale del film di Risi "In nome del popolo italiano" vedrai una perfetta rappresentazione del potere oppiaceo del calcio.




18 Quel che devi dare al lettore (Facebook 2013).

In cambio dell'attenzione del suo lettore, e magari pure dei suoi soldi, uno scrittore ha il dovere di dargli almeno una di queste tre cose: una storia appassionante e originale, una scrittura di per sé affascinante e originale, un contenuto interessante e originale. Basta una di queste tre cose per vincere la battaglia. La più facile da realizzare è la prima, e infatti quasi tutta la narrativa di genere (il poliziesco, per esempio) non promette al lettore un contenuto o una scrittura, ma una storia. La scrittura, quando c'è, può perfino far dimenticare la debolezza di una storia. Esempio: Busi, maestro indiscusso della scrittura ma autore dalle trame deboli e spesso inesistenti. Infine, comunicare per via letteraria un contenuto davvero originale, che non sia già stato esplorato in forma saggistica da filosofi, sociologi, psicanalisti e così via, è cosa molto rara. Un paio di esempi di libri che hanno solo il contenuto e sono debolissimi nella storia e nella scrittura: Espansione del dominio della lotta di Houellebecq e Il danno di Josephine Hart. Di entrambi questi libri ti rimane in mente solo il concetto, personaggi e storia li dimentichi subito e la scrittura è pessima.
Ecco, quando un libro ti dà due elementi su tre (classico: storia e scrittura) siamo già in zona capolavoro; quando ci sono storia, scrittura e contenuto, per me c'è il capolavoro pieno.
Il processo di Kafka, per esempio, li ha tutti e tre: una storia della madonna, una scrittura originalissima e una descrizione inedita e sconvolgente dell'uomo del Novecento; direi anzi che Kafka inventa il Novecento, in un certo senso.
Qui siamo a livelli stellari, ma anche libri meno decisivi nella storia della letteratura meritano lo status di capolavoro. Ti cito due polizieschi dello stesso autore.
La tragedia di Y di Ellery Queen per me è sicuramente un capolavoro; non c'è la scrittura perché, come dicevo sopra, nel giallo non è richiesta, ma c'è una trama incredibile e passa anche un contenuto molto forte, che anticipa Durrenmatt: l'idea di una casualità disperata che governa perfino le cadenze ferree e la causalità esasperata obbligatorie in un poliziesco classico. Infatti gli assassini sono due bambini che per gioco seguono gli appunti per una serie di delitti perfetti lasciati, da un personaggio morto nell'antefatto della storia, ma nel fare ciò introducono elementi di casualità dovuti al fatto che a volte non capiscono queste istruzioni, equivocano addirittura sul lessico e così via, per cui fanno cose assurde. A questo punto l'indagine classica viene messa in scacco dall'illogicità di ciò che l'investigatore si trova davanti, e scatta una metafora stupenda che vale evidentemente per la vita e per il mondo.
Idem, dello stesso autore, Il caso dei gemelli siamesi, titolo che infatti viene citato anche da Borges in un racconto di Finzioni. Anche qui trama originalissima poi molto imitata (quando nel finale si scopre l'assassino, il lettore ha la sorpresa di vedere che è un personaggio che aveva già confessato il suo delitto, ma un elemento casuale l'aveva scagionato) ma soprattutto un'invenzione narrativa grandiosa che introduce un contenuto molto forte: tutta l'azione avviene in una clinica in cima a una collina, sulle cui pendici risale lentamente un incendio circolare a cui non si può sfuggire; da qui l'interrogativo etico: ha senso smascherare un assassino in una situazione in cui tutti sono condannati a morte? Ha senso cercare un senso alla nostra vita, visto che moriremo?




19 Torno a parlare di femmine e maschi per gli 80 anni di “Grazia”, storico magazine italiano.

IL MESTIERE DEL MASCHIO (“Grazia”, 06-02-2020)

Non ho paura di esagerare: diventare un paese civile, per l’Italia, ha significato anzitutto ripensare l’idea della donna. Ma cambiare questa idea toccava anzitutto ai maschi. Erano i maschi a gestire il potere nella famiglia, nel lavoro, nella politica, in ogni ambito della vita sociale. Lo erano e in buona parte lo sono ancora. All’alba degli anni ’40, nell’immaginario del maschio italiano, che si ritrova a entrare in guerra animato da un mito della virilità tanto più stolido quanto più forti erano le sue insicurezze, convivono due incarnazioni opposte della femminilità: la sposa e la seduttrice. Da una parte l’angelo del focolare, madre, cuoca, lavandaia, custode noiosa ma rassicurante della serenità domestica, educatrice dei figli e sostegno del marito da cui dipende non potendo avere un soldo di suo. Dall’altra la regina dei sogni torbidi e del sesso avventuroso. La vamp, diminutivo di vampira, un termine che esprimeva al tempo stesso fascino e pericolo, attrazione e rischio di venire dissanguati, nella passione quanto nel portafoglio. In ogni caso la donna è dipinta come la responsabile, anzi la colpevole del desiderio maschile. Solo in apparenza l’uomo è attivo nell’eros, che in realtà è manipolato sapientemente dalla femmina per il proprio piacere o per altri fini.
Poi le cose si muovono. Fra timidi passi avanti e bruschi dietrofront, lentamente, con molte contraddizioni, il panorama muta. La prima rivoluzione sta in una data: il 31 gennaio 1945 viene esteso alle donne il diritto di voto. Ma come, le donne non votavano? No. Solo dopo quasi un secolo di unità d’Italia diventano cittadine a tutti gli effetti. Merito anche del fatto che la lotta per la liberazione aveva visto donne e uomini di ogni età schierati fianco a fianco. Il dualismo sposa/vampira cominciava a sembrare riduttivo agli occhi del maschio. Nel quadro comparivano altri modelli femminili dal ruolo meno rigido. Non per sostituire i primi due, per carità: vivono e prosperano ancora oggi. Ma almeno per affiancarli.
Gli anni Sessanta e il decennio successivo, con la loro spinta libertaria, sono anzitutto anni di liberazione della donna e di nuovo impulso verso un riequilibrio dei rapporti. Nei media, al posto delle eroine formose ed estroverse a cui erano abituati, i maschi cominciano a vedersi proposte donne pensanti, dalla bellezza problematica e perfino nevrotica.
Ricordo quel periodo cruciale, dato che negli anni Settanta sono stato adolescente: a me e ai miei compagni le ragazze incutevano timidezza. Non parliamo poi delle donne adulte. Leggevamo di nascosto le riviste femminili che trovavamo in casa, fra cui “Grazia”, perché erano gli unici spiragli aperti su questo misterioso universo femminile così diverso dal nostro. Le riviste per maschi? Quelle si rivolgevano a un pubblico di maniaci sessuali o fanatici del calcio e delle moto. Qui avviene un passaggio fondamentale: accettare che non ci sia un modo “giusto” di accostarsi alle cose, di stare nel mondo. E che tantomeno questo modo appartenga in esclusiva agli uomini. Ci stupiva vedere tanta attenzione al look, dato che noi perlopiù facevamo ancora poco caso a come ci vestivamo e al valore simbolico dell’abito. Ridevamo degli oroscopi, salvo consultarli regolarmente e scoprire che forse che la vita non era governata solo dalla razionalità fittizia a cui eravamo addestrati ma anche da influssi misteriosi, dal pensiero magico, da qualcosa di più ricco e pure più divertente. E tutte quelle rubriche e quegli articoli che parlavano di psicologia, di emozioni, di relazioni? Niente del genere sulle pubblicazioni dedicate a noi, al massimo cose come “Le dieci regole per non sbagliare con lei”, che poi fallivano puntualmente. Il mondo femminile si rivelava un territorio più ampio del nostro, che copriva sia regioni di apparente frivolezza che voragini di una profondità che a noi sembrava negata.
Nelle donne di ogni età trovavamo una complessità davanti alla quale ci sentivamo dei bambini.
L’inizio di una nuova era, quindi? Solo per le classi sociali più dinamiche e aperte. E sempre rasentando il crepaccio, lesti a ricadere nella sindrome del maschio prevaricatore. Tanto è vero che all'affacciarsi degli anni ‘80 una grande scrittrice, Armanda Guiducci, poteva ancora porre a titolo di un suo libro un terribile proverbio contadino: La donna non è gente. La donna non è un essere umano, è qualcosa che sta sotto.
A dimostrarlo, un’altra data: solo nel 1996 la legge italiana si sveglia da un sonno secolare e lo stupro viene finalmente catalogato fra i delitti contro la persona, non più nei reati contro la morale! È quasi incredibile pensare che fino a poco più di vent’anni fa, agli occhi del maschio legislatore, il violentatore veniva assimilato più a uno che fa pipì in pubblico che a un sequestratore o a un assassino. Prima di questa riforma la donna non era gente, appunto: era solo parte di un “buon costume” collettivo da salvaguardare.
Oggi il mestiere del maschio che voglia accettare la sfida di ripensare il suo ruolo è diventato molto complicato, almeno quanto lo è stato sempre quello della femmina.
Gli viene chiesto di trovare un equilibrio fra la tradizionale immagine di forza, protezione, autorevolezza, e l’esigenza di scoprire in sé la fragilità, l’emotività, l’autoironia, la messa in discussione di se stesso in ogni aspetto della vita. La capacità di ascolto necessaria davanti a donne indipendenti, che in un mondo dominato dalla comunicazione e dalle relazioni fanno valere i tesori di un lungo apprendistato: diversamente da noi, voi iniziate fin da bambine a gestire i conflitti senza contare sulla scorciatoia dei pugni, a cogliere le sfumature, i significati sottili, i sottintesi nascosti dietro parole e comportamenti. È come se dovessimo rifare daccapo il percorso che voi avete compiuto in secoli di storia, creare un nuovo linguaggio e una nuova idea di noi stessi, e ci stiamo provando. Inventarci una galanteria non paternalista, un desiderio accogliente e non invadente. Capire il valore incommensurabile della diversità.
È chiaro che parlo di un maschio intelligente e consapevole dei cambiamenti, perché per il maschio primitivo che ancora si aggira fra noi, e che talvolta si nasconde dentro ognuno di noi, la soluzione semplice è sempre a portata di mano. Senza scomodare la cronaca nera, i cui dati rimangono comunque impressionanti, lo dimostrano gli abissi di pura bestialità machista che si spalancano nei social, dove l’anonimato e l’illusione di impunità svegliano la belva addormentata. Che non è mai un leone ma soltanto una iena.
Una brava giornalista, che coniuga un ferreo postfemminismo con tacchi a spillo assassini, ha detto: noi oggi vogliamo il potere e i fiori, non rinunciamo a nessuno dei due. Il maschio italiano ha un’antica familiarità con i fiori, come testimonia la canzone con cui Nilla Pizzi vinse a Sanremo nel 1951, quasi all’inizio del nostro breve riassunto. Per arrivare tutti a capire che condividere il potere non solo è sacrosanto ma apre anche nuove prospettive e orizzonti affascinanti, la strada è ancora lunga.